E’ in corso il dibattito parlamentare per la conversione in legge del D.L. 93 del 14 agosto scorso, avente per oggetto il cosiddetto “femminicidio”. Vale a dire il termine con cui si indica l’insieme degli atti di violenza domestica che costituirebbero la prima causa di morte, nel mondo ed in Italia, tra le donne di età compresa tra i 16 ed i 44 anni. Un dato che lascerebbe intendere che la donna sia il principale bersaglio degli atti di violenza estrema posti in atto tra le mura domestiche, soprattutto da parte del partner maschile. L’uso del condizionale è giustificato dal fatto che l’affermazione, comparsa per la prima volta a marzo del 2012 e da allora ripresa ed accreditata come verità indiscussa, cozza con le risultanze del Rapporto sulla Criminalità in Italia, redatto dal Ministero dell’Interno, che a pag. 125 recita esattamente il contrario.
Ciò premesso, se i dati statistici meritano un approfondimento, per evitarne l’utilizzo gratuito in assenza di puntuale verifica, ciò che rischia di passare inosservata è invece la “polpetta avvelenata” contenuta nel dispositivo di legge.Se infatti si registra un generale consenso al principio della tutela della donna ed al suo rafforzamento, ciò ha poco o nulla a che vedere con l’ideologia di genere, il cui accreditamento sembra invece costituire il vero obiettivo della legge, che segue la ratifica da parte del nostro Parlamento della “Convenzione di Istanbul per il contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica”, approvata a maggio del 2011, a cui fa riferimento l’attuale norma in corso di conversione.
In essa si fa esplicito richiamo all’ideologia di genere, che nel testo sostituisce qualsiasi riferimento al sesso, termine che evoca l’esistenza di un dato di natura che qualifica l’identità sessuale della persona. Ma il testo della convenzione è ancora più esplicito, laddove all’art. 3 afferma che col termine “genere” ci si riferisce a: “ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”. Vale a dire che essere uomo o donna non è un dato biologico, ma bensì convenzionale, legato cioè al contesto socio-culturale – mutevole nel tempo – di una determinata società
Ancora una volta assistiamo all’uso di un’iniziativa condivisa per veicolare concetti sui quali non solo manca il consenso, ma che non hanno neanche un minimo di attinenza con la materia che si intende regolare. Non è una novità. Ciò che invece stupisce è l’accelerazione impressa a questo nuovo attacco alla persona. Lo si desume dai commenti e dalle critiche mosse all’impianto di legge da parte delle più illuminate avanguardie femministe che, per bocca di Titti Carrano – presidente dell’associazione Donne in Rete contro la Violenza – ha manifestato sulle colonne de l’Unità il proprio disappunto. In primis per non essere state coinvolte nell’elaborazione della legge; in secondo luogo per non essere sostenute con adeguati finanziamenti; come a dire: iniziativa lodevole, ma si poteva fare meglio e di più. In tutto ciò possiamo scorgere un elemento inquietante: il partito relativista non si accontenta del nuovo colpo messo a segno. Sembra invece additare un percorso accelerato in vista della meta verso cui ci incamminiamo: la “dittatura del relativismo”.
…. mala tempora currunt !