Dal vino al divino
Meditando il secondo mistero della luce sono solito “inebriarmi” (spiritualmente) nel contemplare questo Dio che trasforma l’acqua in vino, e persino in vino buono – a fare vino scadente sarebbe stato capace anche il diavolo. E soprattutto mi commuove e mi dà fiducia la premura materna di Maria, senza la quale gli sposi di Cana avrebbero dovuto brindare con l’acqua. Tuttavia qualche giorno fa, la mia attenzione orante è stata attirata dal versetto successivo, gettando sui precedenti una nuova luce, precisamente una luce divina:
“Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria…” (Gv 2,11) – il che mi ha immediatamente attivato il link al Prologo del Vangelo di Giovanni: “E noi vedemmo la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre…” (Gv 1,14).
Quel giorno Nostro Signore – cedendo alle insistenze di Sua Madre – operò una seconda Epifania, lasciando a intendere che, a quanto pare, era in grado di mutare l’acqua in vino per il semplice motivo che era stato Lui a crearli, essendo appunto l’Unigenito del Padre. Gli sposi di Cana, senza saperlo, avevano invitato Dio in persona e l’illustre Ospite aveva recato in dono un vino che scaturiva dal seno stesso della Trinità. Non lo aveva fatto solo per sopperire all’improvvisa mancanza del prezioso liquido– della quale avrà risentito anche Lui, essendo tra gli invitati -, ma affinché mediante quel vino eccellente che proveniva direttamente dal Paradiso i commensali potessero inebriarsi di quella gloria eterna della Trinità, che Lui godeva, gode e godrà per tutti i secoli dei secoli. Riconoscendo nella ritrovata abbondanza di vino la sovrabbondanza dell’amore Divino, gli invitati alle nozze di Cana godettero di un anticipazione delle Nozze dell’Agnello, poiché ebbero modo di vedere, anzi sorseggiare “la Sua gloria”. In definitiva, quel gesto tanto umano è la prima manifestazione della natura divina di Colui cui troppo spesso si attribuisce qualsiasi caratteristica – un brav’uomo, un filantropo, un rivoluzionario e via peggiorando – tranne quella di essere Dio.
La gloria nella liturgia (e la liturgia senza gloria)
Non è dunque casuale che questo evento, insieme al battesimo nel Giordano, sia associato alla liturgia dell’Epifania, cioè della manifestazione divina del bimbo nato nella stalla di Betlemme – una stalla oscura che però in quella notte era illuminata dalla “luce vera, quella che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” (Gv 1,9), in confronto alla quale impallidivano persino lo splendore della cometa, il Gloria degli Angeli e i preziosi doni dei Magi. E non è casuale che la liturgia in genere sia intrisa di gloria, nella misura in cui ci spalanca le finestre sul pullulare di vita celeste che ruota intorno a Cristo, che dalla destra del Padre dirige incessantemente la sinfonia eterna che ci attende. Anche se il Re è venuto tra noi in incognito, la sua corona non si è affatto arrugginita. Non si è fatto uomo per umanizzare la divinità, ma per divinizzare l’umanità. Se la stessa Scrittura ci dice che
“Maestà e bellezza sono davanti a Lui, potenza e splendore nel Suo santuario” (sal 96,6),
allora è perfettamente naturale – anzi, soprannaturale – che la liturgia terrena sia incastonata di inni, simboli, gesti e paramenti la cui ricchezza è solo il pallido riflesso di una gloria incomparabilmente superiore a quella terrena. Se dal cuore della Trinità esplode un’apoteosi di maestà e di bellezza, è sicuramente più difficile aprire gli occhi della fede davanti al grigiore di certi edifici, paramenti, atteggiamenti e celebranti il cui sforzo principale sembra consistere nel dimenticare accuratamente la divinità di Cristo, ricordandone semmai le virtù, ma mai la gloria – termine che nelle Sacre Scritture ricorre ben 466 volte. E invece tutto ciò che concorre allo splendore della liturgia – e che viene talora ingiustamente bollato come “sfarzo” – non copre la presunta semplicità del Cristo, anzi ne svela il vero Volto, facendo sì che uscendo da una Messa si possa realmente affermare: “abbiamo visto la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre”.
La gloria nel quotidiano
“Il mondo o è sacramentale o è insipido”, diceva Gómez Dávila, e a ben vedere la gloria celeste si riflette persino nel mondo che ci circonda, in cui tutto sembra razionalmente spiegabile ed analizzabile, almeno finché gli occhi e le orecchie sono fissi a terra. Ad esempio, per gli scienziati è chiaro il rapporto causa-effetto e i fenomeni per cui il sole tramonta o per cui l’acqua si trasforma in neve, ma è molto meno chiaro il motivo della bellezza del tramonto e dello splendore di un cristallo di neve. “I cieli narrano la gloria di Dio”, dice il salmo 19 e la narrano anche gli uccelli che in questo momento cinguettano fuori dalla mia finestra. In attesa che qualcuno mi spieghi cosa cantano, prendo per buona la spiegazione della Scrittura:
“benedite uccelli tutti dell’aria, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli” (Dan 3,80).
Il cantico non risparmia nessuna parte della Creazione, al contrario invita freddo e caldo, neve e ghiaccio, pioggia e rugiada, monti e colli, alberi da frutto, bestie selvatiche e animali domestici a lodare il nome del Signore. Per questo noi Hobbit siamo un popolo “amante della pace, della calma e della terra ben coltivata” (JRRT), perché nel silenzio e nella quiete della Contea riusciamo a sentire meglio quella grande liturgia naturale che dagli abissi del mare al più alto dei cieli – passando per il pony e per la foglia-pipa – chiama a raccolta tutte le opere del Creatore affinché lo lodino e lo esaltino nei secoli. Ma ai nostri tempi l’Ombra ha offuscato tutto questo e molti hanno dimenticato il canto degli uccelli, lo scintillare dell’acqua, il calore del fuoco, il profumo che preannuncia la primavera, dimenticando ciò che invece aveva ben presente Santa Ildegarda, per la quale “la creazione intera è una sinfonia dello Spirito Santo, che è in se stesso gioia e giubilo” (Benedetto XVI).
IV – Ritorno a casa
C’è poco da festeggiare quando si perde il padre e il nostro mondo ha perso addirittura il Padre, con la maiuscola, essendo incapace di scorgere la Sua gloria che traspare dal mondo che ci circonda. Smarriti e disorientati, sempre più di rado abbiamo ancora volti
“gioviali, illuminati da occhi vivacissimi e guance colorite, con una bocca fatta per ridere, bere e mangiare” (J.R.R. Tolkien).
Anche perché abbiamo capovolto l’evangelico non praevalebunt nel suo contrario praevalebunt, come se il male, il dolore, la disperazione, la morte, debbano avere sempre l’ultima parola. E in un certo senso sembrano davvero prevalere se non c’è nessuno a fermarli, nessuna casa in cui trovare rifugio. Eppure, anche se molti rifiutano di entrarvi, la Casa c’è e dentro c’è sempre il Padre ad attenderci , benché rifiutato da quanti preferiscono restare volontariamente orfani, in balia della disperazione. È il medesimo Padre della parabola evangelica che quando vede il figliol prodigo ancora lontano, gli corre incontro. Lo fa ogni giorno in mille modi, attraverso tutti quei frammenti di gloria che inspiegabilmente trapassano questo mondo destinato – in apparenza – a precipitare nel grigiore e nella disperazione; lo fa anche attraverso quei mille piccoli segni – dalla melodia degli uccelli alla musica delle acque, dal canto di una madre allo splendore di una chiesa – che si riassumono in bellezza e amore e ci invitano ad entrare in quella Casa dove siamo attesi con ansia. È una dimora più accogliente di quella di Tom Bombadil e più gloriosa di quella di Elrond, dove saremo per sempre al sicuro, poiché la lunga Quaresima di questo mondo è destinata, sì, a sfociare nella Passione, ma per concludersi in un’eterna Pasqua di bellezza, amore e gloria.