C’è un anniversario che sta passando un po’ in sordina, ma che è molto importante per l’arcidiocesi di Milano.
Il 4 novembre 1993, solennità del compatrono S. Carlo Borromeo, una lunga processione dalla chiesa di S. Carlo al Corso al Duomo inaugurò ufficialmente il 47° Sinodo diocesano dell’arcidiocesi di Milano, l’ultimo, per il momento, della serie, iniziata nel 1564 tramite l’azione di colui che veniva festeggiato quel giorno.
Le sessioni si tennero in Duomo, oppure nel salone dell’Istituto gesuita Leone XIII. Parteciparono 647 persone tra sacerdoti, teologi, vescovi ausiliari, rappresentanti di associazioni e movimenti (soprattutto quelli legati alle dinamiche parrocchiali). Gli atti del sinodo furono approvati tra il 6 ed il 16 dicembre 1994 con 521 placet e promulgati ufficialmente il 1 febbraio 1995.
Durante le sessioni si misero in luce personalità di fama, come don Pierangelo Sequeri ed il prof. Cesare Alzati, ed altre che avrebbero acquisito importanza successivamente, ad es. mons. Erminio De Scalzi, attuale abate di S. Ambrogio, i futuri vescovi don Carlo Maria Redaelli e don Franco Giulio Brambilla. Circa l’allora arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, la ricostruzione storica apposta in coda ai decreti scrive: “Egli fu quasi sempre presente alle sessioni, ascoltò con attenzione gli interventi, prese appunti e si tenne costantemente informato sui lavori dei diversi organismi” (Sinodo 47°, Centro Ambrosiano, Milano 1995, p. 577). Si ispira sicuramente alla sua visione pastorale la grande enfasi nei testi sinodali sul ministero di lettura e spiegazione della Bibbia, premesso addirittura, nella parte prima (“Ministeri fondamentali”, cap. I), alla sezione riguardante l’Eucaristia, tradizionalmente molto ampia, che arriva solo a p. 93, nel cap. 2. Parola ed Eucaristia sono i pilastri su cui fissare l’intera vita ecclesiale dei singoli e delle comunità locali (cap. 2, art. 51, par. 1).
Il risultato del Sinodo 47° fu un volume di 750 pagine, compreso l’indice, articolato in diverse sezioni. Se il Sinodo 46°, indetto nel 1966 dal card. Giovanni Colombo, passò alla Storia per la conservazione del Rito ambrosiano e la sostituzione del sistema delle pievi con quello delle 7 zone pastorali, il sinodo del 1993-94 doveva essere contrassegnato dal tema della nuova evangelizzazione. Ne venne fuori un complesso molto articolato, moderatamente riformatore, che amalgamava le intuizioni dei congressi diocesani degli anni ’80 (es. la Caritas in ogni parrocchia), alcune novità (es. l’idea delle unità pastorali, perlomeno di pastorale giovanile, prodromo delle future comunità pastorali) ed antiche certezze (es. si parla ancora di Seminario Minore, sospeso nel 2002, e di oratori femminili).
Il Sinodo 47° confermava l’impostazione tradizionale di centrare sulla parrocchia l’intera pastorale del territorio. Gli uffici diocesani assunsero la forma attuale e divennero gli interlocutori indispensabili di ogni azione coordinata. La contemporaneità con Tangentopoli (1992-94) stimolò a creare la scuola diocesana Date a Cesare per la formazione di cattolici all’impegno socio-politico. Nacque in Curia un coordinamento delle associazioni, dei movimenti e dei gruppi cattolici per provare a mappare quel mondo e consentire all’arcidiocesi di riprendere saldamente in mano ambiti importantissimi come quello scolastico. E’ in quell’occasione che la Curia aprì un apposito ufficio per la nomina ed il controllo degli insegnanti di religione, auspicato all’art. 593 del sinodo. Le parrocchie e le circoscrizioni territoriali (zone e decanati) furono invitate a stendere un piano pastorale che esprimesse tutta la loro prassi. Un lavoro non ancora terminato, di cui si sente un’eco nella “carta di comunione per la missione” che ogni decanato ha preparato e consegnato nel 2010 al card. Dionigi Tettamanzi.
L’applicazione del Sinodo 47° ha trovato degli scogli, di cui il ritardo nello stilare i piani pastorali è un segnale evidente. Essa impattò nell’isolazionismo di alcuni parroci rispetto alle dinamiche diocesane, accresciuto da un senso di autosufficienza rispetto a fermenti del mondo cattolico che, in quel momento, intercettavano una situazione del laicato in rapido mutamento. Superare, per esempio, la distanza tra i cattolici solamente “di parrocchia” e coloro che hanno scelto i movimenti è rimasto il nodo e la sfida di molte comunità. Un’altra difficoltà veniva dalla stessa conformazione variegata del territorio diocesano, che va dai borghi di montagna, nella zona dei laghi, al Parco Agricolo Sud di Milano, passando per cittadine ormai capoluogo di provincia: in questo contesto era difficile ottenere un’applicazione uniforme di atti molto particolareggiati.
Il bilancio del Sinodo 47°, a distanza di vent’anni, è quindi ancora da costruirsi. Molti processi da esso avviati sono ancora in corso, molte altre cose si sono scontrate con il rapido modificarsi delle esigenze. Le parrocchie oggi necessitano di grande elasticità pastorale e le condizioni attuali stanno rivelando quanto diverse norme del Sinodo 47° corrispondessero a situazioni e parametri, sia all’interno che all’esterno del mondo cattolico, ormai del passato. La civiltà parrocchiale, infatti, ha dovuto in molti luoghi fare improvvisamente i conti con una brusca accelerazione dei fenomeni disgregativi della società contemporanea. Gli atti del sinodo riflettono la realtà degli anni ’80-’90, quando nei paesi il senso di comunità non era ancora stato eroso da un individualismo esasperato ed i giovani erano aiutati a socializzare in oratorio e a divertirsi con semplicità da fattori come l’assenza di una tecnologia oggi estremamente pervasiva (tablet, ipad, social network ecc…).
Riprendere in mano, nell’anno 2013, il Sinodo 47° può essere utile non solo per un confronto con l’oggi, ma anche per recuperare la spinta missionaria che lo ha caratterizzato, a cui ci spinge a gran voce lo stesso card. Angelo Scola. E’ fondamentale ricercare una comunione d’azione e d’intenti tra le varie realtà che abitano il territorio dell’arcidiocesi. Diverse prescrizioni, come il desiderio di una vera formazione liturgica dei laici, rimangono attuali e richiedono un’applicazione meticolosa. Le norme per accedere al matrimonio canonico, inoltre, sono così ben esplicate da considerarsi una vera chicca all’interno dell’apparato, da sottoporre alla lettura di chiunque voglia esporre ordinatamente la materia in un corso, in un ritiro o in una conferenza.
Michele Brambilla