Dovendo provare a descrivere un quadro, è bene partire dalla cornice.
L’articolo 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali stabilisce che “l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”.
Tre sono i principi fissati:
- il matrimonio presuppone la diversità biologica dei sessi;
- il matrimonio di un uomo e di una donna è il fondamento della famiglia;
- l’esercizio –non l’attribuzione- del diritto al matrimonio e a fondare una famiglia è materia riservata al legislatore nazionale.
Una cornice che richiama un dato naturale ( a meno che non si voglia ritenere che il riferimento alla natura sia da interpretare come ecologismo d’antan) ed una tela, formata dalle legislazioni nazionali, dai colori diversi.
Coerente con tale cornice è la Costituzione italiana che, all’art. 29, statuisce che “La repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
Del tutto sovrapponibile, se guardiamo oltre i confini europei, è il testo dell’articolo 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948: “La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società ed ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”.
Il paradigma è chiaro: c’è un dato di partenza che è un dato di natura, la famiglia come istituzione naturale, fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna; e c’è un legislatore che ne prende atto.
La Convenzione Europea e la Costituzione Italiana sono tuttora vigenti. Almeno sulla carta.
E tuttavia, nella realtà del cosiddetto diritto vivente, l’articolo 12 della Convenzione Europea non rappresenta più la cornice di riferimento delle legislazioni nazionali.
E ciò grazie agli interventi, in particolare, della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo e delle istituzioni dell’Unione Europea.
Per quanto attiene a tale ultimo versante, quello degli organismi comunitari, il processo di demolizione è stato avviato da circa un ventennio; risale, infatti, al 1994 la prima Risoluzione con la quale il Parlamento Europeo, sulla scia del programma lanciato nella Conferenza de Il Cairo indetta dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nello stesso anno, sposa l’ideologia del gender, che sostituisce il sesso biologico con il genere, inteso come costrutto sociale e culturale, introducendo, al contempo, il divieto di discriminazione inteso non come tutela da comportamenti persecutori, bensì come diritto di tutti, quale che sia il soggettivo e mutevole orientamento sessuale, a tutto, ivi compresi quegli istituti che, per la loro portata fondante del consorzio sociale, reclamano oggettività e stabilità, quali il matrimonio e la famiglia.
Muovendosi in piena sintonia con tale prospettiva, la Commissione Europea si è impegnata per far sì che nella Carta dei diritti fondamentali sottoscritta a Nizza nel 2000 ed entrata in vigore nel 2009, venisse meno ogni riferimento al dato naturale: all’articolo 9, infatti, si prevede che sono garantiti il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia; ma senza dire a chi.
Come superare, a questo punto, il contrasto con la Convezione Europea del 1950?
La soluzione è stata trovata dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. I giudici di Strasburgo, infatti, hanno ritenuto di poter neutralizzare l’ostacolo del dato naturale richiamato nell’articolo 12, sulla base della seguente interpretazione: il diritto di sposarsi, sancito nella predetta norma, non va necessariamente limitato al matrimonio tra persone di sesso opposto, bensì va inteso nel senso che ogni uomo ed ogni donna hanno il diritto di contrarre matrimonio, senza limiti e vincoli quanto al sesso del coniuge.
Non solo.
La “Corte ha considerato addirittura artificioso mantenere l’opinione secondo cui, a differenza della coppia eterosessuale, una coppia di partner dello stesso sesso non potrebbe godere di un diritto alla ‘vita familiare’ ai sensi dell’art. 8” della Convenzione (CEDU, Schalk and Kopf c. Austria, 24.6.2010).
Il rovesciamento dei piani è, dunque, cosa fatta.
Non si tratta soltanto di considerare irrilevante il dato naturale; esso è addirittura artificioso, dal momento che l’unica realtà, giuridicamente rilevante, è il desiderio individuale, la mera affettività, bastevole per attribuire il carattere di famiglia a qualsivoglia unione, a prescindere dall’identità di genere e dagli orientamenti sessuali dei componenti (CEDU, sentenza Gas and Dubois, 15 marzo 2012).
Non è un caso, dunque, se pilastro della giurisprudenza creativa dei giudici di Strasburgo (riconosciuta e teorizzata come tale da autorevoli esponenti della Corte medesima: in assenza “di un potere legislativo e di un potere esecutivo a livello centrale –le parole sono di Christos Rozakis, vice presidente della Corte fino al 2011-, le Corti sono pressoché obbligate ad assumere il ruolo del legislatore” [Città del Capo, 2009]) diverrà l’articolo 8 della Convenzione, che sancisce il diritto alla privacy, al rispetto della vita privata e familiare; “vita familiare” che, essendo disancorata dal fondamento naturale, finisce con il non avere più confini.
La “nozione di ‘vita privata’ –avverte, infatti, la Corte- è un concetto elastico che comprende il diritto di autodeterminarsi ed elementi come […] l’identità sessuale, l’orientamento sessuale e la vita sessuale, nonché il diritto al rispetto della decisione sia di avere che di non avere un figlio” ( CEDU, sentenza S.H. e altri v. Austria, 1.4.2010).
La risultante del combinarsi degli interventi delle istituzioni comunitarie e dei giudici di Strasburgo è una cornice nuova, che pretende di imporre colore e tonalità alle legislazioni degli Stati nazionali in tema di matrimonio e famiglia e, per l’intima connessione, in tema di filiazione, fecondazione ed educazione.
La risoluzione del Parlamento Europeo del 24 maggio 2012 sulla lotta all’omofobia in Europa, “ritiene che i diritti fondamentali delle persone LGBT sarebbero maggiormente tutelati se esse avessero accesso a istituti giuridici quali la coabitazione, unione registrata o matrimonio; plaude al fatto che sedici Stati membri offrono attualmente queste opportunità e invita gli altri Stati membri a prendere in considerazione tali istituti”.
Il vero discrimine, dunque, è fra legislazioni gender friendly e legislazioni not gender friendly; e ciò vale anche per quei paesi che intendono accedere all’Unione Europea, obbligati a ratificare la Convenzione per i Diritti Umani e, quindi, a fare i conti con l’interpretazione creativa della Corte di Strasburgo.
Laddove il gender va inteso come nuovo pilastro attorno al quale rimodellare non solo la disciplina del matrimonio e della famiglia, ma anche adozione, fecondazione e programmi educativi, introducendo anche una sorta di neo-lingua giuridica (progenitore A e B in luogo di padre e madre; gestazione per altri in luogo di utero in affitto; ovodonazione in luogo di vendita di ovuli femminili, etc.).
In tale ottica, le normative anti-omofobia hanno avuto, a livello nazionale, una duplice funzione: quella di mettere, per un verso, definitivamente fuori gioco la prospettiva di un diritto di famiglia ancorato al dato naturale e, per altro, di introdurre il divieto di discriminazione inteso, come si è detto, come diritto di tutti a tutto ovvero, per riprendere slogan recenti, come un matrimonio e un figlio per tutti.
Con riferimento, in particolare, all’effetto metastatico innescato dall’adesione alla prospettiva del gender, occorre registrare la sostanziale sovrapponibilità dei percorsi legislativi che hanno conosciuto quei paesi che si sono allineati al monocolore imposto dalla mutata cornice europea.
Si parte dalle norme anti-omofobia e da quelle in tema di attribuzione del sesso, per giungere al riconoscimento giuridico delle unioni di fatto fra persone dello stesso sesso e, quindi, abbastanza rapidamente all’attribuzione a tali unioni dello status proprio dell’istituto matrimoniale, per compiere infine gli ulteriori passi verso l’adozione ed il ricorso alla fecondazione artificiale. Il tutto molto spesso preceduto dalle necessarie modifiche dei programmi educativi delle scuole statali e non; cosa, quest’ultima, resa agevole dal fatto che, trattandosi di interventi che non richiedono veste legislativa, ben possono essere gestiti dall’esecutivo e dagli apparati burocratici ministeriali.
Ciò è quanto accaduto per i paesi del nord Europa (Belgio, Olanda, Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia), della penisola iberica e l’Inghilterra, dove, per garantire appieno il diritto al figlio è ammesso anche il ricorso alla maternità surrogata. Resiste il centro Europa: in Germania ed Austria l’ordinamento non conosce il termine omofobia e l’unica unione che ha lo status del matrimonio è quella fra uomo e donna, con i conseguenti diritti in tema di adozione e fecondazione artificiale. Resistono anche i paesi dell’Est, tranne qualche concessione in termini di registrazione delle unioni di fatto nella Repubblica Ceca, Slovenia, Ungheria e Croazia.
Per molti aspetti emblematico è il caso della Francia. Qui si è registrata una vera e propria accelerazione nella sequenza degli interventi normativi; più che un piano inclinato, una vera e propria parete verticale.
Nel 2012, il legislatore ha inasprito le sanzioni anti-omofobia, punendo la provocazione alla discriminazione anche non pubblica; agli inizi di quest’anno, è stata approvata la legge Taubira (dal nome di Christiane Taubira, ministro della giustizia) che estende l’istituto del matrimonio alle unioni delle persone dello stesso, con tutti i diritti consequenziali, ivi compresa l’adozione. Sempre quest’anno è stata varata la riforma della scuola che ha il compito -secondo le parole del ministro dell’istruzione, Vincent Peillon- di portare la lotta contro l’omofobia fra i banchi di scuola, “strappando il bambino da tutti i suoi legami pre-repubblicani per insegnargli a diventare un cittadino”; gli stessi moduli di iscrizione scolastica non devono contenere accenni ai legami prerepubblicani: padre e madre sono, infatti, sostituiti da “responsabile legale 1” e “responsabile legale 2”.
Qual è la situazione negli altri paesi, ancora non allineati alla europeizzazione del diritto di famiglia?
In molti si è preferito non intaccare il fondamento naturale di matrimonio e famiglia –così evitando lo sconfinamento inevitabile nei territori dell’adozione e della fecondazione artificiale- e muoversi nella prospettiva del riconoscimento dei diritti personali ovvero delle unioni di fatto come formazioni sociali non equiparabili alla famiglia.
Questa è, peraltro, la direttrice che segue la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, organo dell’Unione Europea, con sede in Lussemburgo, le cui pronunzie, a differenza di quelle della Corte di Strasburgo, sono vincolanti per i giudici nazionali.
Intervenendo sulle questioni concernenti il riconoscimento dell’assegno di famiglia (cause riunite C-122/99P e C-125/99/P, Svezia vs Consiglio) e la pensione di reversibilità al convivente superstite (causa C-267/06, Tadao Maruko vs Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen), i giudici comunitari hanno ribadito che il termine “matrimonio” designa un’unione fra due persone di sesso diverso non assimilabile ad altre forme di unioni e che eventuali disparità di trattamento vanno affrontate e risolte sul piano dei diritti individuali (come da ultimo ribadito con la sentenza del 25.4.2013, causa C-81/12, Asociaţia ACCEPT contro Consiliul Naţional pentru Combaterea Discriminării).
Vi è da chiedersi, a questo punto, se giudici di Strasburgo e istituzioni comunitarie hanno scatenato un processo oramai irreversibile.
Innanzitutto, è bene chiarire che la stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, dopo aver demolito il fondamento naturale della famiglia, si arresta dinanzi alla discrezionalità del legislatore nazionale, che non è affatto obbligato –sono parole dei giudici di Strasburgo- a riconoscere alle coppie omosessuali il diritto al matrimonio, trattandosi di situazioni giuridiche non equiparabili. La sentenza in questione risale al 2012 (Gas e Dubois vs Francia) e interveniva sull’assetto vigente in Francia, prima della legge Taubira. In sede di stesura del dispositivo, il membro francese della Corte, Jean Paul Costa, ritenne doveroso aggiungere una propria opinione concorrente, formulata nei termini di una vera e propria esortazione al legislatore del proprio paese a rivedere la struttura del matrimonio. E non si può dire che non sia stato accontentato con sollecitudine. E non si può dire neppure che il giudice Costa non abbia fatto scuola, se si considerano le parole pronunziate dall’ex presidente della Corte Costituzionale italiana, Franco Gallo, all’indomani dell’approvazione della legge Taubira.
Nulla di irreversibile, dunque. Soprattutto, nulla di cogente.
Quando, allora, il legislatore nazionale incappa nella tagliola del divieto di discriminazione sancito dai giudici di Strasburgo?
Ciò accade quando alle unioni delle persone dello stesso sesso viene attribuito lo stesso status del matrimonio fra un uomo e una donna. Ed è quel che si verifica, in particolare, quando a tali unioni venga attribuito uno status (mediante una qualsivoglia forma di riconoscimento) tale da porle sullo stesso piano del matrimonio. In tal caso, a situazioni analoghe deve corrispondere la stessa disciplina; con tutto ciò che ne consegue. In altri termini, fino a quando non si introducono nell’ordinamento le unioni civili registrate, non vi saranno i presupposti affinché i giudici di Strasburgo possano invocare il rispetto del divieto di discriminazione fra situazioni (unioni riconosciute e matrimonio) analoghe trattate in modo diverso. Il rischio è, pertanto (come accaduto per altri paesi), che, una volta compiuto il passo verso le unioni civili, l’ulteriore scivolamento verso il matrimonio omosessuale sia, di fatto, imposto per via giurisprudenziale.
Fino ad allora, e cioè in assenza di interventi legislativi che introducano forme di riconoscimento delle unioni di fatto, nulla da temere?
Non proprio.
In primo luogo, occorre fare i conti con l’utilizzazione delle competenze legislative riservate all’Unione Europea, in via esclusiva o concorrente con quelle nazionali. Ed infatti, pur trattandosi di materia –qual è quella dello stato civile e diritto di famiglia- riservata alla competenza legislativa degli Stati membri, non possono escludersi ricadute indirette, per effetto di interventi in settori connessi.
A tale riguardo, è significativo il testo del paragrafo 40 della Risoluzione del Parlamento Europeo, approvata il 23 novembre 2010, su taluni aspetti relativi al diritto civile e commerciale, nella parte in cui “appoggia con vigore i piani volti a permettere il riconoscimento reciproco degli effetti degli atti di stato civile”; il che significa auspicare l’adozione da parte della Commissione di misure normative in grado di obbligare gli Stati a riconoscere i matrimoni comunque e da chiunque contratti negli altri paesi membri. Siffatte misure sono, allo stato, programmate nel Libro Verde, dal titolo assai suadente “Meno adempimenti amministrativi per i cittadini”, che la Commissione Europea ha licenziato il 14.12.2010.
Occorre, poi, fare i conti con gli interventi creativi dei giudici nazionali, i quali, per superare l’ostacolo della normazione positiva, si appellano sempre più frequentemente ai precedenti della Corte di Strasburgo, pur non essendo, come si è detto, immediatamente vincolanti, tralasciando in una sorta di shopping giudiziario- le pronunzie del giudice comunitario, quelle sì direttamente vincolanti. A tale riguardo, non si può non ricordare quanto accaduto per la sentenza della Corte di Giustizia nel caso Brustle vs Greenpeace, le cui statuizioni, in tema di tutela dell’embrione, sono state completamente silenziate.
Shopping cui non si è sottratta, di recente, la Corte di Cassazione che, intervenendo in tema di trascrivibilità del matrimonio omosessuale contratto all’estero, pur negando tale possibilità in base al diritto vigente, si è incaricata di fare da apripista all’equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio, dispensando anche consigli legali.
“I componenti della coppia omosessuale –osservano i giudici di legittimità-, […] se – secondo la legislazione italiana – non possono far valere […] il diritto a contrarre matrimonio […],tuttavia – a prescindere dall’intervento del legislatore in materia – , quali titolari del diritto alla ‘vita familiare’ […], possono adire i giudici comuni per far valere […] il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata e, in tale sede, eventualmente sollevare le conferenti eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni delle leggi vigenti […]” (Corte di Cassazione, nr. 4184 del 15.3.2012).
Il dialogo fra le Corti non si arresta, peraltro, ai confini del continente europeo. La giurisprudenza di Strasburgo ha fatto proseliti anche oltreoceano, ed in particolare, nei giudici della Corte Interamericana dei diritti dell’Uomo (Corte IDU), che, di recente, ha esteso la nozione di vita familiare alle unioni omosessuali (Atala Riffo e figli c. Cile, 24.2.2012).
Arturo Carlo Jemolo, un grande giurista del secolo scorso, era solito insegnare che la famiglia come istituzione naturale è un’isola che il diritto deve solo lambire.
Oggi è richiesto l’impegno di tutti, per evitare che la famiglia diventi un mondo sommerso per sempre, da raccontare incominciando con “C’era una volta”.
Intervento di Domenico Airoma