Prezioso è in tal senso l’intervento di Laura Boccenti Invernizzi che ha per oggetto L’uomo e la storia nel pensiero di Josef Pieper (pp. 41-54), in cui si propone di far conoscere uno dei maggiori filosofi tedeschi del XX secolo, ingiustamente dimenticato, il tedesco Josef Pieper appunto (1904-1997). La riflessione di Pieper si contraddistingue infatti per una rara aderenza al senso del reale, muovendo dall’idea che l’uomo, nella sua concretezza, è sempre condizionato dalla storia, il cui senso si rivela pienamente solo sul piano della teologia. Così, all’uomo contemporaneo, che vive le conseguenze dell’oblìo della metafisica e passa dalla deificazione della scienza all’irrazionalismo, egli propone come medicina un discorso realista e costruttivo, che impiega le categorie perenni elaborate dalla tradizione culturale greca e cristiana per affrontare i problemi attuali della confusa ora presente. L’abbandono della tradizione, infatti, e quello della verità come proprietà degli enti, per Pieper hanno prodotto la grave crisi antropologica che colpisce l’uomo contemporaneo: una crisi anzitutto di senso e che può essere superata tornando coraggiosamente a fondare l’etica sulla metafisica. Pieper non ha dubbi sulla legittimità e la necessità per la filosofia di ricorrere alla teologia; al contrario ritiene che una filosofia della storia che rifiuti di rifarsi alla teologia cessi di essere filosofia«[…] in quanto le sfugge il suo stesso oggetto e le vien tolta la possibilità di abbracciare con lo sguardo l’insieme della storia» (p. 52). Peraltro, così facendo, Pieper non esprime una richiesta confessionale ma riporta alla memoria un dato oggettivo: «noi non facciamo della teologia, ma ci rifacciamo alle chiarificazioni della teologia – e mentre nel far questo così procediamo, richiamiamo alla memoria una verità che un tempo era considerata cosa naturale e non solo nell’occidente cristiano, ma da Platone stesso e da Cicerone e da Virgilio non meno che da Lao-Tse: cioè che la teologia fa parte del complesso unitario della cultura» (p. 53).
Si ricollega a questo assunto, da un punto di vista storico, il contributo di Francesco Pappalardo (L’identità nazionale italiana nel pensiero di Giovanni Cantoni, pp. 201-213) che si propone di mostrare, ripercorrendo i principali saggi di Cantoni sul tema, come il dato religioso sia parte integrante della cultura italiana da sempre e come la vulgatarisorgimentale imperante (quella secondo cui «fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani») costituisca una delle interpretazioni ideologiche più fuorvianti nella storia del nostro Paese. Una osservazione serena e trasparente della storia della nostra Penisola mostra infatti che in Italia «vi era un popolo anche prima del Risorgimento, era abitata da comunità umane caratterizzate da molti tratti comuni, e non dei meno significativi, come, per esempio, la religione» (p. 202). Per dirla con le parole di Cantoni, infatti, «il popolo italiano, la cui identità religiosa, quindi eminentemente culturale, è stata costituita dalla Chiesa, erede di istituzioni romane e convertitrice dei barbari, nei secoli dell’Alto Medioevo, ha raggiunto la propria maturazione nazionale spontanea – cioè non promossa da un potere temporale – all’apogeo del Medioevo, acquisendo quindi – secondo una tesi autorevole – una ’effettiva coscienza nazionale priva di forma politica’ cinque secoli prima della nascita del moderno Stato nazionale» (cit. a p. 202).
Di diverso tenore il contributo di Mauro Ronco che torna alla filosofia della storia in La fondazione del diritto naturale in Giambattista Vico (pp. 229-248). Vico assume rilievo, soprattutto oggi, perché può aiutare a cogliere il vero senso dei diritti dell’uomo nel quadro complessivo della storia civile delle nazioni. Egli infatti, confrontandosi con i fondatori del giusnaturalismo laico o moderno (Thomas Hobbes, Ugo Grozio, Samuel Pufendorf, John Selden) ne aveva contestato in tempi non sospetti il fondamento filosofico nonché «la praticabilità concreta delle loro tesi giuridiche» (p. 239), denunciandone apertamente l’inganno dottrinale. Tale inganno è, secondo Vico, quello di «[…] avere elaborato il diritto naturale delle nazioni senza tener conto della provvidenza divina» (cit. a p. 239). Per il filosofo napoletano questa strana caratteristica della Modernità è tanto più grave se solo si pensa che «i giureconsulti romani, pur immersi nel paganesimo, ’riconobbero il gran principio’ del diritto nella Provvidenza» (p. 239). L’esito di questo inganno, d’altronde, non ha tardato a manifestarsi emergendo in tutta la sua schizofrenia in tempi sempre più recenti: appare ormai chiaro che senza un fondamento metafisico del diritto la verità cade inesorabilmente in balía degli argomenti utilitaristi seminati a piene mani dagli autori di tendenza materialista.
Precisamente sulle diverse patologie della cultura della Modernità e sui possibili antidoti da usare per porvi un argine si sofferma Oscar Sanguinetti in Aspetti della visione della storia nel pensiero conservatore fra Ottocento e Novecento (pp. 249-263). Di «pensiero conservatore» e di «conservatorismo», come noto, si parla frequentemente nelle letture storiografiche dell’Età Moderna, almeno dal XV secolo: tuttavia, è con l’annus horribilis 1789, con la Rivoluzione Francese, che appare il conservatore vero nomine. In quell’anno infatti la «cultura della modernità viene pienamente istituzionalizzata e opera quindi un salto di qualità, conseguendo lo status di ’civiltà’» (p. 249). Per converso, in questa fase inizia la reazione del conservatorismo più autentico, significativamente definito da un tono reattivo e che dunque può qualificarsi a tutti gli effetti «contro-rivoluzionario». Di questa cultura, «il dato religioso, in tutte le sue implicazioni, è elemento essenziale e dominante» (p. 251). Così, se la Modernità è un’epoca di crisi, di strappi e di rotture, l’epoca della rivoluzione come fenomeno sociale di disordine perpetuo e allontanamento da Dio, la controrivoluzione sarà ancorata sul riconoscimento anzitutto del dato naturale, il rispetto delle sue finalità e l’avvicinamento a Dio. Con le parole di Joseph de Maistre (1753-1821): «la rivoluzione […] è satanica nel suo principio; essa non può essere veramente finita, uccisa, sterminata che dal principio contrario, che bisogna soltanto liberare […] Contro-Rivoluzione non è assolutamente una rivoluzione contraria, ma il contrario della Rivoluzione» (p. 257). La traccia di de Maistre, come pure quella della scuola conservatrice contro-rivoluzionaria europea ed ibero-americana verrà poi sistematizzata dal già ricordato Plinio Corrêa de Oliveira. Egli suggerirà come la radice del processo di dissoluzione storica della Cristianità vada cercata su un piano meta-temporale e meta-fisico: in interiore homine, ovvero nella volontà umana degradata da abiti morali corrotti che col tempo influenzano le idee e, con le idee, i fatti. Su questa fondamentale lezione del Novecento tornerà Cantoni in Italia e con lui quanti, negli anni, ne hanno seguito le orme. Il tempo, che è sempre galantuomo, dirà se e in che misura la lezione è stata assimilata dagli alunni, recepita nei contesti familiari e diffusa negli ambienti quotidiani, riportando la maggior gloria, di cui al titolo del volume, al posto che le spetta.
Questi sono solo alcuni dei diciotto saggi di cui il volume si compone: un po’ in tutti, al di là del tema specifico affrontato, si possono comunque ritrovare questi elementi, sì che la raccolta può essere considerata una esemplificazione, almeno in via di prima approssimazione, delle potenzialità interpretative della realtà, così come della «ricetta» per l’azione, insite nel pensiero cattolico contro-rivoluzionario.
Omar Ebrahime