Il 2013 oramai agli sgoccioli segna il centenario della nascita di uno dei grandi pensatori statunitensi del secolo XX, Robert A. Nisbet, nato il 30 settembre 1913 e scomparso i 9 settembre 1996. Ricordarlo ora è non solo un atto giusto e doveroso che contribuisce a conoscere meglio gli Stati Uniti autentici, ma anche una sorta di riparazione. Parrà strano, infatti, ma nella ricorrenza dell’anniversario nessun giornale italiano ha giudicato interessante celebrarne la memoria…
Robert Alexander Nisbet, conservatore, cattolico, è stato senza dubbio uno dei giganti del pensiero contemporaneo, statunitense sì, ma di respiro universale. Sociologo, Nisbet ha saputo ridare (dare?) dignità piena a una disciplina i cui carnefici primi sono troppo spesso proprio i suoi specialisti. Per Nisbet, infatti, il sociologo vero altro non è se non un “pastore” dell’“uomo sociale”: ne assiste le dinamiche storiche senza pretendere di determinarle né tantomeno di forzarle, come invece ritiene sia da fare la gran parte dei suoi colleghi contemporanei cresciuti alla scuola dell’illuminista ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) − anche se magari remotamente − o al massimo del progressista americano John Dewey (1859-1952).
Di studi e saggi importanti Nisbet ne ha lasciati numerosi; non uno andrebbe lasciato ammuffire sugli scaffali di qualche biblioteca poco frequentata, compresi quelli solo apparentemente “troppo americani”. Imperdibili sono Tradition and Revolt (1968), The Social Bond (1970), The Degradation of Academic Dogma (1971), Twilight of Authority (1975), Sociology as an Art Form (1976) e The Present Age: Progress and Anarchy in Modern America (1988). Con Prejudices: A Philosophical Dictionary (1982) Nisbet ha ripreso e spiegato uno dei concetti base della filosofia socio-politica di uno dei maestri suoi e di tutto il conservatorismo, non solo angloamericano, ovvero il pensatore e uomo politico anglo-irlandese Edmund Burke (1729-1797): l’idea che il “pregiudizio” sta al fondamento della tradizione quanto il “privilegio” è il contrario esatto delle caricature elaboratene da giacobini e comunisti. Ma è con The Quest for Community (1953), tradotto in italiano nel 1957 dalle milanesi Edizioni di Comunità con il titolo La Comunità e lo Stato, che Nisbet getta la pietra angolare del suo costrutto culturale. Con quel testo, infatti, egli afferma e dimostra che essere conservatore significa essere “tradizionalista” (prima di ogni caricatura assunta purtroppo da questo termine), e che il vero “tradizionalista” è l’autentico “comunitarista”. Nisbet era del resto in anticipo; la polemica scoppierà molto dopo. Ma quando i soi-disant “comunitaristi” dell’“era Clinton” (anni 1990) cercarono di puntellare il pensiero liberal in disfacimento tagliando-e-incollando fuori contesto alcuni princìpi-cardine del pensiero conservatore per strumentalizzarli, troppi caddero nella trappola; chi invece si era tenuto saldo alla via nisbetiana, resistette.
Nisbet spiega tutto in quel capolavoro che è The Sociological Tradition (1966), tradotto a Firenze da La Nuova Italia nel 1977 e non ignoto nemmeno ai piuttosto avari circoli universitari italiani. Qui lo studioso ricupera (e insegna agli statunitensi che poco lo conoscono) il magistero culturale dei grandi pensatori contro-rivoluzionari francesi − liberando inoltre Alexis de Tocqueville (1805-1859) dall’“accusa” di liberalismo e restituendoci lo splendido Frédéric Le Play (1806-1882) − e suggella il senso di una carriera intera descrivendo la nascita e lo sviluppo della sociologia in Occidente come storia del pensiero “reazionario” contro la disgregazione progressista. L’operazione è peraltro delle più importanti: con Nisbet, infatti, il conservatorismo statunitense − il cui “tradizionalismo” è l’ancoraggio all’ethos classico-cristiano del periodo coloniale e al verbo giusnaturalista dell’epoca di “fondazione” della nazione − spinge le radici più in profondità, traendo linfa vitale dal retaggio preilluministico europeo.
Per Nisbet, dunque, il “sociale” è l’attenzione agl’istituti di diritto naturale, e alle istituzioni positive che nel rispetto e nella tutela di quello si fondano. E come tutto ciò sia ancora oggi un’arma politica formidabile, persino elettorale. È stato così che Nisbet, sorta di Burke redivivo, ha saputo dialogare efficacemente con “tradizionalisti” e libertarian, neocon e social, senza mai concedere uno iota ai liberal. Da noi resta ancora pressoché ignoto, ed è un gran male. Una prima ricognizione del suo pensiero è, in italiano, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale (Mimesis, Milano-Udine 2012) di Spartaco Pupo, docente di Storia delle dottrine politiche nell’Università della Calabria; ma negli Stati Uniti la messe che lo riguarda è enorme, compresa fra i primi studi che gli hanno dedicato due dei suoi massimi discepoli e interpreti, Robert Perrin e Brad Lowell Stone, e la nuova edizione (ISI Books, Wilmington [Delaware] 2011) del suo classico The Quest for Communiy impreziosita dal contributo critico di prima qualità firmato da Ross Douthat, opinionista di The New York Times e astro emergente del conservatorismo culturale statunitense.
Una piccola grande gemma nisbetiana è del resto il volumetto Conservatism: Dream and Reality (1986), tradotto in italiano a cura di Spartaco Pupo con il titolo Conservatorismo: sogno e realtà (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2011), ovvero il profilo culturale di un pensiero che per il mondo anglofono costituisce l’alternativa matura e cosciente alle ideologie contemporanee, descritto nella sua versione classica e “pura”, senza però disdegnare le incarnazioni politiche concrete che esso tollera. Quando glielo domandai, poco prima della sua scomparsa, Nisbet lo indicò come il suo contributo a quella tradizione culturale, il suo “dono” a essa. Ve ne si ritrovano, infatti, tutti i pilastri, lungo la fertile elaborazione che da Burke e dai contro-rivoluzionari francesi arriva a Russell Kirk (1918-1994) − il “padre” della rinascita conservatrice statunitense nella metà del secolo XX, che di Nisbet fu grande amico −, ma anche a Ronald Reagan (1911-2004) e a Margaret Thatcher (1925-2013). Peccato per quello svarione, in perfetta buona fede, che sia nell’originale sia nella traduzione italiana (fedele allo svarione) pasticcia con una famosa citazione di Joseph de Maistre (1753-1821), secondo il quale la contro-rivoluzione non è una rivoluzione di segno contrario ma il contrario stesso della rivoluzione. Peccato perché Nisbet, nonostante l’errore, ha colto perfettamente il senso del pensiero demaistreano, proponendo un conservatorismo che, nella difesa lucida dei corpi intermedi (Nisbet era un sociologo vero), attua il contrario esatto della rivoluzione massificatrice e statalista inaugurata dal giacobinismo e proseguita nella storia dai suoi molti e variegati figli.