Il 4 febbraio viene pronunciato l’attesissimo discorso dell’arcivescovo di Milano, card. Angelo Scola, al Consiglio regionale della Lombardia. L’incontro, che doveva svolgersi il 17 dicembre, è stato rinviato a questa data a causa del sopraggiungere della Novena di Natale.
“Vi sono grato per l’invito a visitare il Consiglio Regionale e a intrattenere questo dialogo con Voi e mi scuso, una volta ancora, per aver dovuto rinviare l’incontro fissato prima di Natale. Ritengo questa vostra proposta un gesto di “amicizia civica”, con cui viene riconosciuto l’apporto che la Chiesa ambrosiana vuole offrire alla società plurale che oggi caratterizza anche la nostra Regione”. L’arcivescovo, davanti alle autorità civili, potrebbe sembrare solamente il “rappresentante di una istituzione con rilevanza pubblica, la Chiesa”, ma in realtà, proprio perché condensa la comunità cristiana, porta con sé “il tesoro di ideali, legami, conoscenze, risorse che i nostri progenitori ci hanno consegnato. L’umanesimo che ci ha generato ha bisogno di essere non soltanto trasmesso, ma immesso nella nuova cultura”. C’è il detto che la Chiesa sia la “democrazia dei morti”: nella Messa vivi e defunti si congiungono a lodare il medesimo Signore. Tramite il card. Scola sono quindi presenti in consiglio regionale anche i lombardi che furono e quelli che sono ancora nella mente di Dio.
L’arcivescovo dipana davanti all’assemblea un affresco complessivo della situazione attuale. Il card. Scola ha una visione ampia della crisi, che non è stata determinata da cause meramente finanziarie, ma consiste in “un travaglio di civiltà all’inizio del nuovo millennio. Ne è segno il fatto che, non accettando di cambiare profondamente i nostri stili di vita, continuiamo ad immaginare scenari che ci riportino a come eravamo e che, alla fine, ci lasciano paralizzati”. L’Occidente annaspa perché non si basa più su valori autentici e, rifiutandosi caparbiamente di recuperare quelli giudaico-cristiani, rimane paralizzato in una visione del mondo autodistruttiva.
Per la società contemporanea, il card. Scola usa l’espressione “società complessa”, perché, rispetto ad espressioni come “società coriandolizzata”, permette di capire che la situazione non è del tutto ingovernabile. “Richiede piuttosto di ripensare e aggiornare il rapporto tra diversi e complementari fattori quali identità e pluralità, realtà e comunicazione, strutture e capacità di iniziativa”.
Alla luce di questo quesito l’arcivescovo guarda con un misto di preoccupazione e speranza all’integrazione degli immigrati, dei quali ricorda l’alto tasso di fecondità. Il suo non è un appello buonista, ma raccomanda “equilibrate politiche di integrazione, nel rispetto della legalità”, altrimenti “il nostro futuro sarà più difficile”. L’integrazione è prima di tutto un problema di cultura ed educazione, di rispetto dell’identità di chi arriva come di quella di coloro che accolgono. Solo un’identità forte, infatti, è capace di cogliere il bene dell’altro e valorizzarlo.
Il luogo dove si dispensa l’educazione fondamentale è la famiglia, autoctona o immigrata che sia. “La famiglia, nel senso classico del termine, costituisce quindi una notevole potenzialità, ma la mancanza di adeguate politiche familiari le impedisce di essere una possibilità efficace per costituire il futuro”. Notare l’inciso “nel senso classico del termine”: la disattenzione alla famiglia tradizionale ferisce “il nostro tessuto sociale” e crea “nuovi poveri”, sia in senso materiale che educativo. Non è la prima volta che il cardinale insiste sulla necessità di nuove politiche familiari: se crede che la famiglia sia la cellula fondamentale della società, perché l’Occidente continua a favorirne l’indebolimento? Equivale a segare il ramo su cui si è seduti. E’ intuibile in queste parole anche una critica velata alla spasmodica promozione dell’ideologia di genere.
La Chiesa porge umilmente una “grammatica dell’umano” (Vangelo e legge naturale) ad una società smarrita, che pensa di potersi ridefinire dalla A alla Z prescindendo da qualsiasi riferimento naturale e religioso. Il popolo di Dio trae forza da “Gesù Cristo, in cui – come ha affermato il Concilio Vaticano II – trova vera luce il mistero dell’uomo (cfr GS 22). L’umano di cui la Chiesa parla non deriva da un patrimonio dottrinale “ideologico e cristallizzato” (Papa Francesco), non anzitutto da codici normativi, non da tradizioni rituali prese in se stesse, non da particolari competenze concorrenti con altre, ma dal rapporto con una Persona vivente”.
In poche parole, perché la Chiesa bussa alla porta delle istituzioni civili? Perché ha a cuore l’uomo, che sa essere creatura di un Dio che ha scelto di incarnarsi e di condividere fino in fondo le più elementari esigenze dell’umano. E’ quindi l’umile eco della voce di un Padre innamorato profondamente dei suoi figli, che creò il mondo con un ordine, seguendo il quale il successo è garantito.
Michele Brambilla