Nel 1957, per i tipi della “madre” delle case editrici conservatrici statunitensi, la Regnery allora di Chicago, Russell Kirk (1918-1994) pubblicò un volume dal titolo The American Cause, ripubblicato sempre da Regnery nel 1966 con premessa dello scrittore John Dos Passos (1896-1970) e ancora nel 2002 a Wilmington, nel Delaware, da ISI Books a cura di Gleaves Whitney, discepolo di Kirk e dello storico statunitense Stephen J. Tonsor III (1923-2014) nonché studioso dello storico inglese Christopher Dawson (1889-1970). Il testo, sono parole di Kirk, nacque come «volumetto dedicato alle istituzioni e ai princìpi morali, politici ed economici su cui si fondano gli Stati Uniti, […] scritto in ragione dell’ignoranza di essi che aveva afflitto molti soldati statunitensi durante la Guerra di Corea» e che «per un certo periodo di tempo l’Accademia dell’Aeronautica Militare utilizzò […] come libro di testo».
In esso, fra l’altro, al capitolo The Need for Principles ‒ il secondo ‒, Kirk scrive:
Un uomo amorale è un uomo immorale. Una nazione amorale è una nazione incivile. Se un popolo dimentica i propri princìpi, ritorna alla barbarie e allo condizione selvaggia. Se un popolo preferisce princìpi falsi a princìpi forti, si trasforma in un popolo di fanatici. Oggi, lo statunitense non banale è chiamato a difendere questi princìpi forti su due fronti: uno è quella negazione di ogni principio che conduce alla decadenza sociale e personale; l’altro è quell’adozione di princìpi falsi che sprofonda il mondo nell’anarchia. Il pericolo che stiamo correndo in patria è il fatto che una grande porzione della popolazione statunitense rischia di dimenticare l’esistenza dei princìpi permanenti. Il pericolo che corriamo all’esterno è il fatto che i falsi princìpi del fanatismo rivoluzionario […] possono giungere a esercitare su di noi un influsso gravido di conseguenze terribili. La causa americana è allora la difesa dei princìpi della vera civiltà, difesa che si conduce rafforzando negli uomini la consapevolezza della natura dei veri princìpi morali, politici ed economici, e applicando questi alle istituzioni della società e della vita personale.
E ancora:
Questo libro non è quindi stato scritto allo scopo di trasformare gli statunitensi in fanatici politici, zelanti un vago “americanismo” da estendere al mondo intero. Né costituisce un’opera di propaganda che mira a convincere gli altri popoli del fatto che tutto quanto è statunitense sia perfetto. Del resto, uno degli aspetti più importanti e positivi della nostra tradizione nordamericana è la tolleranza: e questo concetto di tolleranza comprende anche, da parte nostra, l’approvazione simpatetica della multiformità, dell’esistenza di una molteplicità di diritti nazionali e personali, e della libertà di scelta, tanto da noi che nel mondo intero. La missione degli Stati Uniti non è quella di rendere tutto il mondo uguale agli Stati Uniti, quanto piuttosto quella di far sì che gli Stati Uniti restino una fortezza del rispetto dei princìpi e, per certi versi, un esempio per le altre nazioni. La causa americana non è quella di cancellare fisicamente i rivali degli Stati Uniti, ma semplicemente quella di mantenere vivi i princìpi e le istituzioni che hanno reso grande la nazione statunitense.
Nel libro, osserva Kirk, si avrà dunque cura di
non affermare che una realtà è positiva semplicemente perché statunitense, o negativa semplicemente perché non lo è; il nostro tentativo sarà quello di descrivere l’essenza di ciò in cui credono gli Stati Uniti e il modo in cui, di conseguenza, essi agiscono, non quello di predicare crociate per l’americanismo. […] Non opporremo un “capitalismo” astratto a un astratto “comunismo”, o una “democrazia” astratta a un “assolutismo” astratto oppure a un astratto “imperialismo”. Il pensare per slogan si trasforma in un pensare per proiettili. Quando parleremo di democrazia, lo faremo nel senso delle istituzioni democratiche degli Stati Uniti, non asserendo un qualche fumoso ideale politico che gli statunitensi dovrebbero imporre all’universo intero. Quando parleremo di libera intrapresa economica, lo faremo nel senso della prassi e degli sviluppi economici degli Stati Uniti, non affermando l’utopia di un qualche stato di perfetta competizione», giacché «la causa americana è così complessa e così viva, cioè sbocciata da un terreno così antico, da non potere essere descritta mediante l’uso di espressioni univoche come “capitalismo” o “democrazia” o “eguaglianza”. Tutto al contrario, la causa americana nasce dalla capitalizzazione di numerosi fattori morali, politici ed economici, alcuni dei quali specificamente nordamericani.
Anche a chi sogna l’America come “paradiso terrestre”, Kirk dice: «C’è bisogno di ricordare al resto del mondo che gli Stati Uniti non sono una semplice astrazione, o un frutto naturale delle cose: gli Stati Uniti costituiscono invece una civiltà altamente civilizzata i cui grandi risultati sono stati resi possibili dall’unione fra tradizioni durevoli, energie di singoli uomini e responsabilità pubbliche. Questo libro apre una finestrella su ciò in cui credono gli statunitensi così come sulle loro tradizioni, sulla loro storia e sui loro modi concreti di agire, ovvero su tutto quanto costituisce la pretesa statunitense di essere civiltà, nonché sulle ragioni che hanno portato gli Stati Uniti a raggiungere una condizione di agiatezza. È stato scritto ‒ umilmente ‒ come opera di risanamento» nella convinzione che «la politica di oggi deve essere svolta alla luce delle esperienze di ieri, e che la causa americana è divenuta tout court la causa della cultura nobile».
I collezionisti e i “topi di biblioteca”, o di bancarella, possono trovare una prima traduzione italiana di The American Cause, condotta a puntate dal sottoscritto, sulle pagine dell’annata 2003 de il Domenicale. Settimanale di cultura, che allora si editava a Milano.
Marco Respinti