La vittoria, il 10 giugno, di Dave Brat contro Eric Cantor nelle primarie per la designazione del candidato che rappresenterà il Partito Repubblicano nel 7° distretto dello Stato della Virginia alle elezioni per il Congresso federale del 4 novembre è stata davvero clamorosa, con pochissimi precedenti e per molti versi inattesa.
David Alan “Dave” Bratt, infatti, è sostanzialmente uno “sconosciuto”. Con questa espressione non si deve però intendere un uomo ignoto agli elettori ‒ la cui maggioranza lo ha infatti preferito al notissimo Cantor ‒, quanto dire che certamente non si tratta di un abitué delle tribune politiche, delle “stanze del potere” e dei “salotti buoni”.
Nato nel 1964 a Detroit, Brat insegna Economia al Randolph-Macon College, di Ashland, in Virginia. Cantor, invece, nato a Richmond, in Virginia, nel 1963, è uno degli uomini più importanti ed esposti del Partito Repubblicano. Deputato alla Camera della Virginia dal 1992 e al Congresso federale dal 2001, nel partito ha fatto carriera diventando, nel 2009, vice-leader della minoranza alla Camera e nel 2011, quando i Repubblicani riguadagnarono il controllo di quell’assise, leader della maggioranza. Per questi motivi appariva già proiettato a prendere, prima o poi, il posto dell’attuale Presidente repubblicano della Camera, John Boehner. E invece no. A gennaio, esattamente il 3, giorno in cui s’insedierà il 114 Congresso degli Stati Uniti (quello che sarà eletto appunto il 4 novembre), Cantor uscirà di scena (anche se nulla gl’impedirà di rientrarvi: tanto per fare un esempio piuttosto clamoroso, l’ex senatore Rick Santorum è fuori al Congresso federale sin dal 2007 ma niente gli ha impedito di correre per la Casa Bianca, con risultati più che lusinghieri, nel 2012).
Ora, la sfida tra Brat e Cantor esemplifica nel modo più evidente possibile la “guerra” senza quartiere da tempo in atto dentro il Partito Repubblicano americano; una “guerra” la cui posta in gioco è l’anima stessa del Partito Repubblicano.
Quel partito, infatti, non è certo nato, nella seconda metà dell’Ottocento, come un partito conservatore; anzi, per molti versi nel suo seno hanno albergato, e per periodi significativi pure dominato, correnti di pensiero progressista. L’inversione, clamorosa, di tendenza è iniziata con la data simbolo del 1964, allorché il senatore Barry Goldwater (1909-1998) cercò l’elezione alla Casa Bianca presentandosi nelle file di un Partito Repubblicano che però aveva seriamente l’intenzione di trasformare profondamente, tanto che allora furono proprio certi compagni di partito i suoi nemici più implacabili. Ciononostante ‒ nonostante cioè quel “fuoco amico” che allora ebbe la meglio ‒, la trasformazione del partito da lui innescata proseguì (e non sempre solo in maniera carsica), raggiugendo un “punto di non ritorno” nel 1980 con la vittoria alla Casa Bianca di Ronald Reagan (1911-2004), un successo ai vertici politici della nazione che costituì pure una significativa (benché ancora parziale) vittoria interna sulle ali liberal del partito.
La “staffetta” Goldwater-Reagan ha cioè costituto la lunga fase di gestazione della trasformazione dei Repubblicani e innescato la “guerra” dei decenni successivi. Di questa sono state fasi dibattute e tormentate, cioè non sempre indolori, quelle che hanno visto salire alla ribalta (cioè tornare) i cosiddetti neoconservatori (meglio, la “seconda generazione” neocon) durante i due mandati presidenziali di George W. Bush Jr., dal 2000 al 2008, e quindi comparire il fenomeno eclatante del movimento dei “Tea Party”, capace di condizionare fortemente il Partito Repubblicano nelle elezioni per il Congresso federale nel 2010 e nel primarie per le presidenziali del 2012.
La trasformazione del partito è avvenuta per gradi, a marce variabili e non senza contraccolpi; ma è avvenuta. Oggi i conservatori dominano il Partito Repubblicano, una formazione “irriconoscibile” rispetto a solo qualche decennio fa. L’ala liberal, che ancora ai tempi di Reagan contava moltissimo, è solo un ridotto che vivacchia. La variegata formazione politica di un tempo al cui interno viveva anche una rappresentanza conservatrice ora è un partito mediamente improntato al conservatorismo con qualche eccezione che conferma la regola.
Ma allora cosa significa il braccio di ferro tra Brat e Cantor? Significa che, all’interno dei Repubblicani, la guerra tra liberal e conservatori è finita, sostituita dalla sfida tra i conservatori.
I due contendenti delle primarie della Virginia lo dimostrano benissimo. Brat è contrario all’aborto e ai “matrimoni” omosessuali, e si fa un punto d’onore nel difendere la libertà religiosa sancita a chiare lettere dalla Costituzione federale statunitense. Cantor anche, da sempre. Eppure Cantor ha perso clamorosamente contro Brat, stabilendo un record: è il primo leader di maggioranza nella Camera federale di Washington ad aver perso una elezione nelle primarie del proprio partito da che negli Stati Uniti è stata creata la figura del leader di maggioranza alla Camera, cioè dal 1899. Quindi? Quindi quello che sta accadendo oggi negli Stati Uniti è che l’elettorato Repubblicano, che è conservatore, può permettersi “il lusso” di scegliere fra Repubblicani conservatori. In questo momento storico, l’elettorato Repubblicano, cioè conservatore, del 7° distretto della Virginia ritiene che la politica economica proposta da Brat sia migliore di quella seguita da Cantor. Il nocciolo della sfida tra i due esponenti Repubblicani, infatti, è stato principalmente di natura economica. Questione importantissima, talora fondamentale, ma in ballo non ci sono “princìpi non negoziabili”. Non perché essi non siano rilevanti, ma per la ragione esattamente opposta. Dentro il Partito Repubblicano ‒ elettorato e personale politico ‒ mediamente nessuno mette in discussione i “princìpi non negoziabili”; molto dell’elettorato conservatore sceglie il Partito Repubblicano proprio per questo e proprio per questo boccia il Partito Democratico, che specularmente è divenuto il bastione cosciente del relativismo in politica. Ciò di cui si discute oggi nel mondo Repubblicano è invece come difendere concretamente i “princìpi non negoziabili” nella vita politica quotidiana e contro i loro nemici Democratici, ovvero si parla di ciò che è lecitamente negoziabile. E dunque su questo ci di divide lecitamente.
Marco Respinti