The New York Times è un quotidiano che sta dove sta il potere, che piace alla gente che piace e che dell’essere à la page fa una religione civile. Quindi è un quotidiano liberal.
Ha appena lanciato una nuova rubrica-blog, The Upshot, con cui il curatore David Leonhardt si picca di voler spiegare la realtà quotidiana attraverso numeri, statistiche, sondaggi e affini. Il suo articolo dell’8 luglio ha un titolo che colpisce, Why Teenagers Today May Grow Up Conservative, vale a dire “Perché gli adolescenti di oggi potrebbero diventare conservatori domani”. Leonhardt ragiona così. Gli Stati Uniti di oggi sono l’avanguardia spinta di tutto ciò che è “di sinistra” per quel che nel mondo occidentale significa oggi essere “di sinistra”. Relegate in soffitta la lotta di classe, il materialismo dialettico e il collettivismo aggressivo (tutte idee, tra l’altro, che negli Stati Uniti hanno sempre avuto ben poca circolazione), la Sinistra attuale è quella dei “matrimoni” GLBT, della “liberazione sessuale” 2.0, dell’aborto fai-da-te, della scommessa non più con la morte ma con l’eutanasia, del gioco dei quattro cantoni con la fecondazione artificiale, dell’utero in affitto, della marjuana come social network, dello statalismo “debole” in stile “fabiano” (cioè fortissimo nella sostanza, ma graduale nei modi) dei mille infrangimenti indiretti delle libertà costituzionali (religione, espressione, proprietà privata) operati per via amministrativa, dell’ecologically correct modaiolo e superstizioso, della depenalizzazione dell’immigrazione clandestina, e via di questo passo. Gli Stati Uniti di oggi sono così e vivono il loro sogno dorato perché alla Casa Bianca governa non un cattivo presidente americano, ma il primo presidente anti-americano della storia del Paese: uno, cioè, che non promuove politiche cattive e sbagliate come un Bill Clinton o un Lyndon B. Johnson qualsiasi, ma che positivamente implementa il contrario stesso di ciò che fino a oggi ha significato, a destra come a sinistra, essere americani. Ma proprio questo idillio tra Amministrazione e nuova Sinistra è quello che, secondo Leonhardt, si rovescerà nel futuro prossimo, quasi immediato, nel suo contrario: lo sviluppo di una nuova generazione di giovani e di giovanissimi schierati a destra, cioè con l’arcipelago conservatore sul piano culturale e con il Partito Repubblicano su quello politico nella misura in cui questo saprà (come sempre) interpretare in modo convincente le istanze del “movimento”.
Sinistra e sinistrati
Leonhradt spiega la cosa evocando una sorta di “legge dell’alternanza”, ricucinata in una versione ad hoc dell’idea ‒ piuttosto fisiologica ‒ secondo cui, nell’“ora della verità”, chi sta al governo cronicamente perde perché contestare e protestare dai banchi dell’opposizione è sempre più facile che mandare avanti la cosa pubblica. Per il commentatore di The New York Times, cioè,l’attuale nuova generazione di elettori americani voterà a destra perché si renderà conto che la Sinistra di governo ha deluso. Spiega Leonhardt che i 18enni al voto per la prima volta nelle presidenziali del 2016 saranno troppo giovani per ricordarsi che il mondo esisteva già prima della vittoria elettorale di Barack Obama nel 2008, troppo assuefatti allo status quo per percepire la grande novità politica del primo presidente (mezzo) nero degli Stati Uniti e troppo abituati a vivere a sinistra per rendersi contro dell’importanza strategica anche di certe (loro) mezze-vittorie. Nessuno di loro, cioè, si ricorderà che i guai in cui da troppi anni gli Stati Uniti continuano nella sostanza a languire sono solo colpa di George W. Bush jr. (lo dice Leonhardt, lo riporto per dovere, non credeteci) e così finirà per prendersela con l’attuale classe dirigente del Partito Democratico al potere. A supporto, Leonhardt cita il meccanismo uguale e contrario verificatosi nei decenni passati, quando l’attesa di un Godot che per la generazione hippy degli anni 1970 non è mai venuto innescò la reazione culminata con l’ascesa dei neoconservatori e la presidenza di Ronald Reagan (1911-2004) negli anni 1980.
Interessante, ma superficiale. C’è indubbiamente del vero, ma queste constatazioni non fanno che scalfire la superficie di un fenomeno ben più profondo.
Quanto alla presidenza Reagan, accenno qui solo en passant al fatto che essa ha costituto l’apice di un vero e proprio movimento di restaurazione nazionale, il quale affonda le radici nell’identità stessa del Paese e nel modo con cui gli Stati Uniti sono stati partoriti dai Padri fondatori a fine 1700, per poi essere nutrito dalla sanior pars americana nel 1800 almeno fino alla Guerra di Secessione (1861-1865). L’entrata in crisi – terribile – di quell’identità aveva infatti specularmente generato un “moto di ritorno” (talora carsico sino a farsi impercettibile o a essere dato per disperso) durato circa un secolo e poi esploso pubblicamente (cioè politicamente) in maniera “virale” in occasione della campagna elettorale del 1964 con cui di è appunto innescata la fase finale ‒ “acuta”, quindi manifesta a tutti ‒ del suddetto “moto di ritorno”. Pertanto, l’“era Reagan” ha operato un’autentica “riconciliazione nazionale” che ha riportato il Paese alle origini, affidando ai “nuovi conservatori” il compito di vigilare e di custodire. La stagione politica attuale costituisce dunque la “fine dell’inizio” del progressivo spostamento a destra dello strumento pubblico scelto per effettuare quell’opera di conservazione sul piano politico (che certamente non è l’unico), ovvero il Partito Repubblicano, elaborata “inconsciamente” negli anni dell’Amministrazione Clinton, proseguita negli anni dell’Amministrazione Bush Jr. e maturata per contrasto durante gli anni dell’Amministrazione Obama. Tutto ciò grazie anche, ma non solo, alla “seconda generazione dei neocon”, che hanno sancito il pieno ingresso del fenomeno neoconservatore nell’“ortodossia” del “conservatorismo classico” (e non viceversa) e allo sprone dato dal “movimento dei Tea Party. Le sfide interne, i passi falsi e persino le sconfitte contingenti sono così rubricabili alla voce “danni collaterali” di questa crescita, ma soprattutto l’“era Obama” si comprende appieno solo se la si coglie come tentativo supremo ed estremo di cancellare una volta per tutte la sconfitta inflitta dalla “restaurazione reaganiana” allo spirito di sovversione che per lungo tempo ha provato a travolgere il Paese.
Forever Young
Ciò detto, per quanto fisiologico sia che in una democrazia un elettorato muti parere politico quando un certo personale o una certa linea governano da “troppo” tempo, l’inversione di rotta previsto ‒ con un certa sagacia ‒ da Leonhardt su The New York Times ha tutt’altre spiegazioni.
La prima è quella solo apparentemente più banale. I Democratici al potere da 6 anni con Obama hanno deluso per primi i propri elettori. Ora delle presidenziali del 2016, i Democratici oggi e da tempo al potere con Obama avranno esaurito anche l’ultima prova d’appello e il loro elettorato li boccerà. Ovviamente solo una minima parte di chi ha votato per i Democratici di Obama nel corso ei suoi due mandati presidenziali voterà nel 2016 per i Repubblicani: la maggior parte tornerà a rifugiarsi in quel non-voto da cui, con grande capacità tecnica, Obama li snidò nel 2008. Ma questo sarà sufficiente a far perdere ai Democratici fette di elettorato decisive, con grande probabilità legate a quelle “minoranze” su cui Obama ha sempre puntato praticamente tutto: amplissima parte del voto nero ricuperato dal non-voto nel 2008 Obama lo ha infatti già perso nel 2012, dovendo così spostare l’attenzione sui latinos (la differenza nei voti assoluti ottenuti da Obama nel 2008 e 2012 è davvero enorme).
Dove questa considerazione smette di essere banale, ovvero legata solo a questioni numeriche spicce, è il motivo della delusione di quell’elettorato. Nel 2004 quell’elettorato che i Democratici pescarono nel non-voto e capace di fare la differenza decisiva (il Partito Repubblicano di fatto tenne mentre il Partito Democratico portò alle urne milioni di voti mai espressi prima) si divideva in due gruppi: i votanti ideologici, convinti del radicalismo politico di Obama, e i votanti “sentimentali”, ossia quelli meno attenti all’estremismo di Obama ma conquistati dalla retorica legata al coloro della sua pelle. Nel 2016 questi due gruppi si saranno ulteriormente assottigliati: i “sentimentali” perché “aggrediti dalla realtà” e spaventati dall’estremismo ideologico dimostrato in corso d’opera da Obama, gli “estremisti” poiché scontenti di non avere ottenuto “tutto subito” e certi che dell’“ora o mai più” su cui avevano scommesso sia ormai rimasto solo il “mai più” (soprattutto se il candidato Democratico nel 2016 sarà di establishment, magari persino bianco).
A conti fatti, ciò significa che una parte riconoscibile “per le strade” dell’ex elettorato “sentimentale” di Obama (nel 2004 quello numericamente maggioritario) è mediamente allineato a un sostanziale moderatismo non impossibile da trasformare, nel corso dei prossimi due anni abbondanti di campagna elettorale, in conservatorismo filo-Repubblicano.
A questo blocco di votanti vanno poi aggiunti i neo 18enni che tra due anni voteranno per la prima volta, sui quali s’impernia il ragionamento di Leonhardt su The New York Times. Non solo perché contesteranno, fisiologicamente, l’Amministrazione al potere e quindi la Sinistra di governo, gettandosi automaticamente (un po’ più) a destra, ma soprattutto perché i “nuovi giovani” sono il nerbo del futuro Partito Repubblicano e la constituency su cui da sempre punta il conservatorismo culturale. Sembra un paradosso, ma non lo è affatto.
In media, il personale Repubblicano oggi più in vista, e quindi con più chance di carriera, è giovane e meno penalizzato dalla giovane età di quanto consuetamente accada in politica. Bobby Jindal, Ted Cruz, Marco Rubio, Paul Ryan, Rand Paul, Scott Walker, Chris Christie e ancora Rick Santorum sono giovani o ancora ne hanno l’aria. Rick Perry lo è un po’ meno, ma maschera molto bene. E dietro di loro si staglia un esercito di nuovi Repubblicani o di outsider conservatori giovani che le primarie per le elezioni “di medio termine” del prossimo novembre stanno diligentemente selezionando da tempo e che dopo di allora giocheranno certamente da protagonisti. Sul fronte Democratico, invece, sfilano ancora e sempre i “soliti”. Basti pensare che l’“asso della manica” del secondo mandato Obama è stato un vecchio arnese come John Kerry alla Segreteria di Stato, l’incarnazione stessa della generazione che era già grande quando i 40/50enni di oggi nascevano, e per di più soffiata via dalla storia come accade a tutte le utopie inconsistenti. E basti aggiungere che ancora i Democratici stanno seriamente pensando di proporre per la Casa Bianca l’“usato sicuro” di Hillary Clinton, wasp e snob tanto quanto Kerry, lontana anni luce dai “giovani”, dalle “minoranze” e dai border-line obamiani.
Tendenze, costumi, idee
Ebbene, tutto ciò non c’entra affatto con la retorica “giovanilistica” e alquanto stucchevole che interpreta cose serie come la politica attraverso categorie risibile quali il “cambio generazionale”; c’entra invece con il fatto che il “ricambio” nel Partito Repubblicano è l’effetto più visibile del famoso spostamento a destra del baricentro del partito (operato in gran parte attraverso i “Tea Party”) che ha esautorato, attraverso il lavacro di primarie e tornate elettorali (quindi in modo specchiatamente democratico) la “vecchia guardia” mediamente liberal. E dietro questo nuovo personale ‒ che è giovane per ragioni sostanziali (l’avere abbracciato un ideale conservatore “nuovo” rispetto alle “vecchie” dottrine liberal) e non solo per accidens anagrafico ‒ c’è un elettorato ancora più giovane, ovvero ancora più conservatore.
Negli Stati Uniti succede così da più di mezzo secolo: badando alle cose che più contano, e trascurando (dove e per quel tanto che possono essere trascurate) le mere diatribe politiche, i “centri di elaborazione” della cultura conservatrice hanno sempre puntato sugli studenti, offrendo loro “scuole parallele” e “formazioni alternative” nella lucida convinzione che è più semplice tirare grande in modo diritto un novellino che cambiare la dura cervice di un adulto convinto (Reagan ebbe l’astuzia e la capacità di portare questo stesso metodo dentro il Partito Repubblicano e ai vertici del Paese per la prima volta in maniera percepibile e “pubblica”).
La Sinistra di oggi potrebbe essere la Destra di domani ‒ per utilizzare il linguaggio di Leonhardt ‒ un po’ perché sedotta e abbandonata, ma molto di più perché la “foresta di Sherwood” dove il conservatorismo si è rifugiato negli anni dello tsunami Obama ha sortito il suo effetto. A volte si fatica ad accorgersene, perché sono sempre solo gli eventi cattivi a fare notizia; ma ‒ elenco “a caso” ‒ la riduzione parziale del numero degli aborti americani esito delle battaglie di un mondo pro-life strategicamente intelligente, la grande testimonianza di “americanità” dei cattolici americani anche di fronte alla “massa protestante” (compresi alcuni gesti pubblici clamorosi), la serena e indefessa testimonianza alla verità data dalla gerarchia cattolica ( “moderati” compresi), la grande reazione di popolo in difesa della famiglia naturale, le notevoli sentenze emesse dalla Corte Suprema federale in favore dei “princìpi non negoziabili” e lo svilupparsi di una seria intellettualità conservatrice dopo che per qualche anno la si era vista un po’ meno sono tutte tendenze decisive che già incidono significativamente su mentalità e costumi. Pur senza nutrire entusiasmi faciloni, c’è da scommettere che ora delle elezioni del 2016 saranno idee mature.
Marco Respinti