“Sold. Riboldi Giuseppe, 89 Fant. 14-5-1883, 3-1-1917. Pasubio”. Così è scritto su una lapide del piccolissimo cimitero di S. Agata Martesana (MI). Le targhe, singole, che ricordano i caduti della Prima guerra mondiale (1914-18) originari della frazione sono sparse lungo tutto il muro di cinta del camposanto, e non si dimenticano neppure i dispersi. Non c’è località dell’arcidiocesi milanese in cui la Grande Guerra, per l’Italia cominciata nel 1915, non abbia seminato qualche lutto.
E’ il triste tributo di sangue (oltre 600.000 vittime, è stato calcolato) che gli italiani pagarono alla smania di vittoria del re Vittorio Emanuele III (sul trono 1900-46) e delle elites liberali al governo, che con la presa militare di Trento e Trieste, inserita in un conflitto generale europeo, in cui i cosiddetti “poteri forti” causarono deliberatamente la scomparsa dell’ultimo regno cattolico, l’Austria-Ungheria, intesero coronare il Risorgimento. Nei loro piani, le trincee avrebbero saldato la popolazione italiana in una causa comune, che facesse finalmente dimenticare tutti i campanilismi e le ferite interiori provenienti dalle vicende del secolo XIX.
Fu così solo in parte. La Grande Guerra mise fianco a fianco il soldato milanese con quello napoletano. Tuttavia, una nazione abbisogna di altri collanti oltre al sangue versato, e questo i Savoia non erano in grado di offrirlo, avendo guerreggiato per oltre 50 anni con la Chiesa e l’identità cattolica del Paese. I reduci percepirono al fronte certamente un forte senso di militanza, tuttavia fu una parentesi straniante, che creò una generazione di giovani difficile da riassorbire, distrusse certezze millenarie ed instillò un senso di disagio che prese poi le forme dei totalitarismi.
Tradizionalmente la Prima guerra mondiale è indicata come il momento in cui anche la componente cattolica si riallineò allo Stato compiendo fino in fondo il dovere di difendere la patria. Non solo in Italia, ma anche in Francia lo stato maggiore dell’esercito mise molte energie nell’instillare sentimenti di religiosità. In tante famiglie italiane si conservano i santini della Comunione pasquale del bis-nonno sul fronte. Tuttavia, la Chiesa colse subito il carattere ideologico del conflitto. S. Pio X (1903-14), che morì all’inizio della guerra, si rifiutò di benedire qualsiasi parte in causa, pur simpatizzando per l’Austria. Lo stesso fece il successore Benedetto XV (1914-22), che continuò a proporsi come mediatore, appoggiandosi in particolare al beato Carlo d’Asburgo (1887-1922), l’ultimo imperatore di Vienna.
E Milano, teatro di uno dei primi bombardamenti di centro abitato con aeroplani (14 febbraio 1916)? La città era l’emblema del funzionamento perfetto del patto Gentiloni del 1913, durante il quale i cattolici ed i liberali conservatori fecero fronte comune contro il socialismo. La guerra non mutò gli equilibri politici, frutto di un decennale lavorio diplomatico all’interno della stessa Chiesa locale. Sulla cattedra di Ambrogio e Carlo regnava dal 1894 il beato card. Andrea Ferrari, che aveva messo il massimo delle energie nel pacificare un mondo cattolico profondamente diviso dal Risorgimento tra intransigenti e filo-sabaudi, senza spesso essere compreso.
Tuttavia, l’arcivescovo non esitò un solo momento a seguire la linea pontificia riguardo alla Prima guerra mondiale, benché significasse sconcertare i cattolici liberali. La Curia di piazza Fontana divenne il luogo a cui tutti potevano rivolgersi per sapere notizie di un congiunto disperso o defunto. La carità dell’arcivescovo fu instancabile specialmente nel corso delle epidemie infettive (la “spagnola”). Come S. Carlo Borromeo, il card. Ferrari non smise di girare la sua immensa arcidiocesi per portare i soccorsi della religione ed impose ai parroci la medesima vicinanza ai fedeli, che vedevano i loro giovani spediti allo sbaraglio nelle trincee. Fu proprio durante una visita pastorale, a Castronno, che avvertì i sintomi del tumore alla gola che lo avrebbe condotto alla morte. La sua voce, che era risuonata in ogni contrada dell’arcidiocesi, divenne improvvisamente molto flebile.
Neppure lui riuscì, però, a comprendere fino in fondo il cambiamento radicale che era avvenuto in Europa. Uomo profondamente ottocentesco, si concentrò soprattutto sui sommovimenti del mondo cattolico. Il 17 novembre 1918 partecipò ai festeggiamenti della Pro cultura, l’associazione ideata dal francescano padre Agostino Gemelli (1878-1959), in un clima da “concordia nazionale” che era già insidiato dalle violenze del Biennio rosso. L’ospite d’onore di quella serata fu don Luigi Sturzo (1871-1959), che di lì a poco fonderà il Partito Popolare. Il neotomismo di Gemelli e il popolarismo di Sturzo parevano la ricetta giusta per rinnovare la presenza cattolica in Italia. La morte non permise all’arcivescovo di Milano di verificare le intuizioni di quei giorni. Fece in tempo soltanto a presentare, in udienza in Vaticano, il progetto dell’Università Cattolica, simbolo di un Cattolicesimo ambrosiano che, almeno ai vertici, sembrava di nuovo unito ed orgoglioso.