A 70 anni di distanza ci si interroga ancora su quale fosse il grado di consapevolezza della comunità internazionale circa l’esistenza dei campi nazisti ed il dramma che si consumava al loro interno. A 25 anni dalla caduta del muro di Berlino ci si chiede cosa sapesse il mondo dei Gulag sovietici, dopo la pubblicazione di Arcipelago Gulag del premio Nobel A. Solzenicyn. Nulla ci si domanda invece dei campi, tuttora funzionanti, in Nord-Corea. Eppure di loro si sa praticamente tutto. Se ne conosce la dislocazione, la numerazione, li si fotografa con le moderne tecnologie satellitari, si stima quanti detenuti racchiudano, si sa a quali lavori sono adibiti. Nulla giustifica quindi il silenzio che grava intorno a questa realtà, che si perpetua da tre generazioni, tanti quanti sono stati i despoti comunisti della dinastia Kim, al potere da oltre 60 anni. Uno squarcio su questa realtà è offerto oggi dalla pubblicazione di Fuga dal Campo 14, che narra l’incredibile storia di Shin Dong-hyuk e della sua fuga dal Campo 14, un campo di detenzione grande quanto Los Angeles, tanto visibile su Google Maps quanto ignorato dall’opinione pubblica mondiale. L’unicità della storia di Shin sta nel fatto che lui, in quel campo, ci è nato, essendo figlio di persone detenute lì da decenni. Dal 1982, anno della sua nascita, al 2 gennaio 2005, giorno della sua fuga, Shin non ha conosciuto nulla al di fuori della realtà demenziale del campo. Nulla che avesse relazione con la normalità, fosse anche quella alterata della nazione più segregata del mondo. Oggi Shin, dopo una fuga incredibile che lo ha fatto finalmente approdare in Corea del Sud, è il principale testimone della Commissione ONU che indaga sui crimini perpetrati dal regime nordcoreano a danno dei suoi cittadini. Se già fino ad oggi non c’erano scusanti per il silenzio che grava su questa realtà, dopo la pubblicazione di questa testimonianza di alibi non ce n’è più.
Blaine Harden, Codice Edizioni srl, Torino, settembre 2014