Il sociologo cattolico francese Augustin Cochin (1876-1916) – “riabilitato” dallo storico ex comunista François Furet (1927-1997), che ha saputo restituirgli la dignità accademica che le sterilità del pensiero laicista gli hanno a lungo negato – è noto per i puntigliosi studi sulle “società di pensiero”, i laboratori ideologici in cui le rivoluzioni vengono ordite, preparate e implementate in obbedienza al diktat marxiano: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in vari modi; ma il punto ora è di cambiarlo».
Con opere imprescindibili quali Lo spirito del giacobinismo. Le società di pensiero e la democrazia: una interpretazione sociologica della Rivoluzione francese (trad. it., con introduzione di Sergio Romano Bompiani, Milano 2001) e La società di pensiero e la Rivoluzione francese. Meccanica del processo rivoluzionario (trad. it. Il Cerchio, Rimini 2008), Cochin – conservatore, contro-rivoluzionario − è divenuto il maestro della storiografia che nell’Ottantanove francese vede il momento della rottura radicale, e cosciente, con il “mondo precedente”.
In questo modo, Cochin “completa”, integrandola, la linea interpretativa inaugurata dal visconte Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville (1805-1859) – specialmente con L’antico regime e la rivoluzione (trad. it., Rizzoli, Milano, 1996) –, tesa invece a tratteggiare le linee di continuità tra gli aspetti più assolutistici dell’Antico Regime e le nefandezze del regime rivoluzionario, contribuendo magistralmente a mostrare come la “modernità” nasca da una lenta e lunga gestazione di cui l’Ottantanove è il culmine pur stravolgente.
Letti in parallelo, Tocqueville e Cochin sono un antidoto potente ai veleni della cultura neoilluminista proprio a proposito di “modernità”, Antico Regime e Rivoluzione Francese. In questi scritti postumi, Cochin individua del resto il carattere precipuo dell’utopismo ideologico nel sospetto sistematico che esso nutre verso la realtà. L’idea stessa di rivoluzione è che il reale sia cattivo e dunque bisognoso di essere trasformato, giocoforza sempre con la violenza.
Le “società di pensiero”, da Cochin individuate e felicemente così “battezzate”, sono assieme la causa e l’effetto dell’utopismo ideologico al potere: al potere prima nell’intellettualità dominante incaricata di stravolgere i criteri di riferimento culturali, quindi nel popolo da essa “rieducato” e infine nei quadri politici il cui compito è rendere permanente la sovversione rivoluzionaria, istituzionalizzandola nella vita politica di un Paese.
Agli antipodi sta invece il pensiero cristiano per cui la realtà, data da Dio, è buona e meritevole di essere difesa dal male che mira a snaturarla.
Marco Respinti