L’estetica del silenzio
“La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16)
“Obsculta, o fili… – Ascolta, o figlio…”, così si apre il Prologo della Regola di San Benedetto, fondando così la civiltà occidentale su un implicito invito al silenzio: per ascoltare bisogna infatti prima imparare a tacere. Il silenzio costituisce pertanto il contesto della vera comunicazione, che ci permette di lasciare spazio all’altro – e all’Altro – e di rientrare pienamente in noi stessi.
Ne facciamo esperienza ogniqualvolta ci troviamo in un luogo “altro” rispetto alla quotidiana frenesia: in montagna o in campagna, nel silenzio di una chiesa, quando mettiamo a tacere i rumori e ricominciamo ad ascoltare i suoni: lo scorrere dell’acqua, il canto degli uccelli, le campane, un cane che abbaia in lontananza, le voci gioiose dei bambini che giocano, il rumore degli zoccoli di un cavallo, la voce – talora la furia – del vento, il suono della pioggia che cade goccia a goccia, il silenzio ovattato della neve che scende…
“Però il silenzio – scriveva Romano Guardini – non dev’essere unicamente esteriore, come là dove nessuno parli e nessuno si muova. Tutto ciò, infatti, si può benissimo avere pure con il tumulto nell’animo. Reale silenzio importa che anche i pensieri, i sentimenti, il cuore siano in pace”.
Così come la pace non è semplicemente assenza di guerra, ma si caratterizza come tranquillitas ordinis, analogamente il vero silenzio non è dato solo dall’assenza di rumori esteriori, ma dalla tranquillitas ordinis interiore. In altre parole, non basta “rifugiarsi” in un luogo insonorizzato se poi all’interno il cuore è fuori controllo.
“Il deserto è il luogo dove si può ascoltare la voce di Dio e la voce del tentatore. Nel rumore, nella confusione questo non si può fare; si sentono solo le voci superficiali. Invece nel deserto possiamo scendere in profondità, dove si gioca veramente il nostro destino, la vita o la morte”
(Papa Francesco, Angelus della I domenica di Quaresima). Bisogna imparare a tacere per imparare ad ascoltare…
Allo scenario sopra descritto, si sostituisce il rumore dei veicoli, le suonerie dei cellulari, la musica che ti insegue ovunque – persino nel bagno del centro commerciale – in una sorta di horror vacui che mira a scongiurare il minimo rischio di ritrovarsi…in silenzio. Ancora più del silenzio esteriore, ci fa paura il silenzio interiore, che spinge – costringe! – a pensare, poiché quella “ragione allargata” che permetterebbe di abbracciare l’ampiezza della vita ci è talora estranea. Non ci limitiamo a “subire” questa invasione acustica, nella misura in cui a nostra volta la produciamo: chi si lamenta di avere il cellulare impazzito o la posta intasata, a sua volta sa rispettare il silenzio altrui? Grazie alla tecnologia parliamo sicuramente di più, ma non sempre parliamo meglio. Le tastierine virtuali degli smartphone e la velocità con cui abbiamo sempre qualcosa di urgente da dire (e mai nulla di urgente da ascoltare) ci impongono una comunicazione a monosillabi, con convenevoli prestampati (ché digitare un cordiale saluto implicherebbe l’intollerabile perdita di tempo di digitare qualche tasto in più… ma soprattutto qualche secondo per dedicare attenzione all’altro) o parole frettolosamente sgrammaticate in una sorta di barbarie di ritorno del professionista che comunica con la stessa angosciosa premura con cui ingerisce il tramezzino che tiene in una mano, mentre con l’altra continua almeno a controllare quale nuovo impegno viene annunciato dall’ennesimo squillo – lo stesso vale per i non-professionisti, giacché anche il tempo libero viene spesso fagocitato dalle notifiche dei social network…e chi resiste alla curiosità di controllare e di rispondere immediatamente? È una comunicazione in cui non c’è spazio per tacere e guardarsi negli occhi – ammesso che per una volta ci si parli di persona. Comunichiamo molto, ma parliamo (e ascoltiamo) poco.
Ritrovarsi nel silenzio: se proviamo però a rompere questa coltre di rumori – esteriori e interiori – corrriamo effettivamente un rischio: quello di sperimentare una pace che non avremmo mai immaginato. Una pace che non è dimenticanza dei problemi del quotdiano, al contrario è una pace profonda che ci garantisce una maggiore chiarezza con cui affrontare le tribolazioni che di volta in volta ci si presentano. Personalmente non avrei mai immaginato di trovare così “leggeri” quei cinque giorni di Esercizi ignaziani, caratterizzati soprattutto dal silenzio: niente cellulare, niente email, niente internet, niente parole… ma Tutto! Quel silenzio non era assenza, negazione di qualcosa, al contrario: era un silenzio pieno che ti permetteva di ascoltare i movimenti del cuore e di vedere la vita, per così dire, “dall’alto” del cuore di Dio, senza dimenticare nulla di ciò che avevo lasciato al di fuori, ma vedendo tutto con grande serenità. Anche nella nostra vita di tutti i giorni possiamo ritagliarci delle oasi di silenzio perché
“non è il molto sapere che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose interiormente” (S.Ignazio di Loyola).
Il silenzio diviene dunque necessario – silenzio esteriore, propedeutico a quello interiore – per gustare la realtà fino in fondo, dall’alto dei cieli alle nostre piccole realtà quotidiane. L’amato a un certo punto tace, smette persino di dire “ti amo” e contempla in silenzio il volto dell’amata. La madre contempla in silenzio il suo bambino che dorme, compiacendosi del frutto del suo grembo, proprio come un artista mette da parte i pennelli e si ferma a contemplare l’opera che sta compiendo. Nel momento culminante della Messa tacciono persino le parole della liturgia e il sacerdote adora in silenzio il pane e il vino che nelle sue mani sono diventati Corpo e Sangue di Cristo. Non è vuoto, è un silenzio pieno di amore quello che accomuna gli amanti, la madre, l’artista e il sacerdote.
Stefano Chiappalone