Una breve analisi di come una parola può diventare “arma” ideologica, associando agli avversari o alle loro idee una parola talismano che riassuma tutto il male possibile e renda l’eventuale confronto già “orientato” nella direzione dell’ideologia da imporre.
Tutte le forme di ideologia e totalitarismo si sono sentite in dovere di intervenire sulle parole della lingua, modificandone il significato e inventandone di nuove.
L’indagine puntuale sulla ragione di ciò esula dai nostri scopi e in questa sede ci limiteremo a notare che non ci può essere completa separazione tra uomo e parola, così chi vuole controllare e manipolare l’uomo facilmente si avvantaggia delle manipolazioni linguistiche.
Nel caso dell’attacco portato all’uomo dalla ideologia gender e le rivendicazioni LGBT, è strategicamente cruciale il termine “omofobia”. Molte sono le parole strumentalmente modificate o inventate, soprattutto in ambito gender, ma la parola omofobia è al momento quella su cui si gioca il confronto più importante che non dev’essere preso sottogamba.
Il sito queertranslation.wordpress.com , che supporta la galassia LGBT in Italia mettendo a disposizione la traduzione di brani significativi dal mondo anglofono, riporta un articolo interessante per le considerazioni che riunisce insieme e che rappresentano il punto di partenza per questa riflessione sulla parola “omofobia”.
Nell’articolo, che si può leggere qui, si spiega come il termine “omofobia” sia inventato sul finire degli anni ’60 ad opera dell’allora studente di psicoterapia George Weinberg; qualche anno dopo l’APA rimuove l’omosessualità dal suo Manuale Diagnostico e «essere gay non era, dal punto di vista medico, più una patologia; essere anti-gay, dal punto di vista culturale e linguistico, improvvisamente lo fu»; «l’ex deputato William Dannemeyer […] attribuisce alla parola [“omofobia”], insieme a “gay”, il merito di aver fatto “pendere la bilancia, forse irreversibilmente, in favore degli omosessuali.” Cambiando la lingua, Weinberg ha cambiato la conversazione».
Nell’edizione 2013, il Manuale di Stile dell’Associated Press vieta l’uso del suffisso “fobia” in contesti politici e sociali, in quanto indica una paura irrazionale e incontrollabile, e spesso una forma di malattia mentale, «“Una fobia è un termine psichiatrico o medico per un grave disturbo medico”, spiega il Vice Redattore Standard dell’AP Dave Minthorn.“ [Usare la parola] omofobia. . . è attribuire a qualcuno una disabilità mentale , e suggerisce una conoscenza che non abbiamo. Invece, useremo qualcosa di più neutrale – anti-gay, o qualcosa del genere. . . vogliamo essere precisi e accurati e neutrali nel nostro fraseggio. “» Di fatto la posizione del Manuale di Stile dell’Associated Press viene contestata, e l’articolo mette in evidenza come nel caso del termine “omofobia” la strategia si sia mostrata particolarmente indovinata, mentre le iniziative per riportare la parola in un alveo linguisticamente corretto e una semantica univoca sono viste con fastidio.
Il termine in questione, inizialmente adottato per presentare gli omosessuali quali vittime di violenza intollerante, ben si prestava, riferendosi alle fobie, ad essere caricato di tutta una serie di significati legati più o meno direttamente all’emotività e alla psiche. La sfera emozionale è per natura sua fortemente soggettiva, mentre i percorsi della psiche sono nascosti, faticosamente identificabili, così è stato facile modulare a piacere la semantica di questo termine che, ad oggi, viene indistintamente impiegato per indicare sia l’aggressione fisica sia una generica opinione in contrasto con una generica tesi LGBT.
L’uso del termine omofobia con una semantica liquida, il frequente ricorso a slogan di impatto e l’indovinata strategia che presenta l’omosessuale come reietto ed escluso dalla società, sono riusciti a creare l’idea che il problema della tutela dell’omosessuale in qualche misura esista davvero, nonostante i casi concreti ed effettivi di discriminazione o addirittura violenza nei confronti di chi ha questo orientamento sessuale siano assolutamente marginali in ambito scolastico, lavorativo, sociale e politico
Un interessante articolo di Massimo Introvigne su La Nuova Bussola Quotidiana, analizzando i risultati di una ricerca su matrimonio, famiglia e unioni omosessuali mette in luce un errore frequente: il fatto che ci sia una stragrande maggioranza favorevole alla famiglia e un’analoga maggioranza sia favorevole al ddl Scalfarotto indica una diffusa convinzione che l’emergenza omofobia esista veramente; convinzione favorita anche dal fatto che nel disegno di legge in questione l’aspetto liberticida è dissimulato nella norma, mentre il contrasto omofobico è intento ampiamente pubblicizzato.
A riprova di questa confusione, basta fare un giro su blog e forum che non hanno preso posizione rispetto all’alternativa famiglia-tesi LGBT: interventi e commenti del tipo “c’è un’omofobia grande tra i cristiani e non” sono tutt’altro che eccezionali e passa totalmente inosservato il fatto che con lo stesso termine vengono indicati sia il teppista violento sia chi non concorda con una certa idea.
Dopo una lunga premessa, veniamo quindi alla questione centrale che qui ci preme, perché capita spesso che chi ha approfondito i temi della ideologia gender e delle rivendicazioni LGBT, di fronte all’assurdità di certe posizioni si lasci andare a forme di ironia in cui presenta se stesso o le sue idee come omofobe. Questo è un errore strategico quanto alla difesa della famiglia, e una improvvida leggerezza rispetto alla possibilità di mostrarsi credibile verso chi avvicina la questione per capire.
E’ frequente che la semantica di un termine si modifichi a seconda del contesto o di chi parla. Ad esempio la parola pedofilia viene a volte impiegata per indicare l’efebofilia o, per estensione, anche l’attrazione fisica (perlopiù di un uomo verso una donna) quando la differenza di età è significativa e uno dei due decisamente giovane. Nessuno però accetterebbe di lasciarsi chiamare, o addirittura definirebbe se stesso, pedofilo ancorché in modo allegorico, per analogia, solamente per mettere in luce un uso improprio del termine: è troppo evidente e chiaro a tutti il significato terrificante di quella parola perché si possa tollerare di essere associati ad essa anche alla lontana.
Non ho scelto a caso l’esempio della pedofilia: i sostenitori della gender theory e i movimenti LGBT fanno pressione perché sia criminalizzato ovunque ogni riferimento all’omofobia, mentre negli stessi ambienti ci si muove per stemperare progressivamente la repulsione suscitata dal termine pedofilia: è di pochi giorni fa la notizia che l’APA (American Psycological Association) ha modificato la sua valutazione della pedofilia da malattia a orientamento.
Tutto questo dovrebbe richiamare l’attenzione sul fatto che il termine omofobia, così come pensato nel nuovo linguaggio del pensiero unico, non è cosa con cui scherzare.
Forse, più che sottolineare le contraddizioni insite nel termine e chiedere sistematicamente a chi lo impiega cosa intenda di volta in volta, dovremmo smettere di usarlo e indignarci ogni volta che suggeriscono anche alla lontana una nostra familiarità con esso, perché nulla ci accomuna con l’abbietta violenza di chi aggredisce senza motivo.
Che ci sia poi effettiva incompatibilità tra i diversi significati, è immediatamente evidente se si considera che il teppista che aggredisce col pretesto dell’orientamento sessuale è un bruto e rozzo che nulla ha da spartire con chi difende una tesi ragionando e argomentando: il primo, posto che abbia delle idee, non troverebbe ne l’interesse ne la capacità di sostenerle in un confronto dialettico, il secondo, consapevole che la violenza nulla aggiunge alla forza della verità, mai concepirebbe il confronto fisico per avvalorare le sue idee.
I sostenitori del pensiero LGBT vogliono convincerci tra i due estremi ci si possa spostare man mano che l’omofobia si incrementa o si riduce (da qui l’idea della cura riabilitativa prevista dal ddl Scalfarotto) , ma per quanto io cerchi nella memoria non ricordo esempi di pensatori, scienziati, filosofi e ricercatori che per sostenere le loro tesi abbiano pensato di concludere una dimostrazione assestando un cazzotto sul naso dell’interlocutore. (Se eccezione esiste, proprio in quanto eccezione non può in nessun modo avvalorare la tesi LGBT).
Che sia possibile passare progressivamente e senza soluzione di continuità da un civile e fermo dissentire fino alla violenza fisica, è il postulato delle tesi LGBT. Postulato falso come si metteva in evidenza prima, ma necessario perché si possano presentare i gay come vittime, minoranza perseguitata anche da chi semplicemente dissente.
Andrea Piccolo