La scintilla di eternità, quel “di più” che cogliamo nelle cose belle, è il ponte che collega le cose visibili a quelle invisibili. Contempliamo solo quando andiamo in fondo a ciò che altrimenti guarderemmo in maniera distratta o superficiale; solo quando ci fermiamo al di là dello sguardo fugace – o dello scatto fugace con lo smartphone che troppo spesso diviene la sola finestra attraverso la quale guardiamo la realtà. È necessario fermarsi a contemplare per cogliere il “di più” e quindi la bellezza di uno sguardo, di quella particolare espressione della persona amata, di quell’irripetibile sinfonia di colori che al tramonto dipinge in modo nuovo le montagne che vedo dalla mia finestra, di quel suono melodioso che ogni giorno gli uccelli inconsapevolmente innalzano al loro Creatore.
«“Entrare nel mistero” significa capacità di stupore, di contemplazione; capacità di ascoltare il silenzio e sentire il sussurro di un filo di silenzio sonoro in cui Dio ci parla (cfr 1 Re 19,12)» (Papa Francesco, Veglia pasquale 2015). È necessario entrare nel mistero del canto degli uccelli, delle montagne al tramonto, dello sguardo della persona amata, per cogliere in tutta la realtà quella perfezione visibile soltanto all’occhio che ama: «le perfezioni di chi amiamo non sono finzioni dell’amore. Amare è, al contrario, il privilegio di accorgersi di una perfezione invisibile agli occhi degli altri» (Nicolás Gómez Dávila). Se questa perfezione ci attrae, ci parla, in maniera misteriosa ma non meno eloquente è perché rinvia a qualcosa che sta oltre, ad una Perfezione superiore di cui la realtà terrena è riflesso sacramentale, nella misura in cui, proprio come i sacramenti, è costituita da elementi materiali che veicolano significati spirituali.
La sacramentalità del mondo, di conseguenza, ci apre orizzonti sconfinati di contemplazione, non solo in senso stretto, cioè quando siamo di fronte ad un’icona o a un testo sacro, poiché «la nostra contemplazione sacrale deve abbracciare praticamente tutto: dalla natura, alle persone, i popoli, la storia, passando attraverso tutte le attività umane. Tutto quello che c’è di vero, buono e bello costituisce l’oggetto di uno spirito contemplativo» (Plinio Corrêa de Oliveira). La purezza dell’acqua che sgorga da una sorgente ha da dirci molto di più di quanto è racchiuso nella formula H2O, l’immagine di un uomo al lavoro ci parla di dignità e sacrificio, quella di un padre che porta suo figlio in spalla rinvia alla Paternità divina, e lo sguardo mite di un agnello è stato riferito dal Signore a Se stesso.
Si tratta di una dimensione connaturata all’uomo sin dalla preistoria: basti pensare alle armi decorate a forma di animali di cui si voleva “assorbire” la forza. Il cane, in tanti affreschi medievali, è simbolo di fedeltà e anche la saggezza popolare tiene conto della dimensione simbolica della realtà, per cui il leone è simbolo di coraggio, la volpe di astuzia – benché in un film del celebre trio si dicesse: “scaltro come una faina”…ma di sicuro non direste mai “coraggioso come un coniglio” o “lungimirante come una talpa”. Il mondo minerale, vegetale e animale pullulano di significati, così come i nostri atteggiamenti, che non sono mai neutri. Una stretta di mano, una formula come “buongiorno”, esprimono cordialità, un abbraccio esprime amicizia. Una firma sigilla un impegno cui tener fede. E cos’altro sono la rosa e l’anello, se non segni dell’amore che lega due innamorati, due sposi? Segni efficaci, poiché la loro funzione simbolica realizza e rafforza ciò che esprime…
L’arte cristiana è densa di simboli, “inventati” da Dio stesso nella creazione e nella rivelazione: il pesce non è più solo un animale vertebrato che vive in acqua, ma diventa il simbolo di Cristo (con allusione anche al miracolo dei pani e dei pesci): Ichtys [pesce, in greco] è l’acrostico di ‘Ιησοῦς Χριστός Θεoῦ Υιός Σωτήρ [Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore]. Il pellicano diviene simbolo di Cristo che si sacrifica per nutrirci. Il corallo e il pettirosso rinviano alla Passione. Per non parlare dell’Agnello, figura centrale nel Libro dell’Apocalisse. L’albero non è più un albero e basta, ma l’albero della vita che stava nell’Eden (Gn 2,9) e anche l’Albero della nuova vita, cioè il legno della croce; ma anche l’albero il cui frutto è promesso come premio per la vita eterna (Ap 2,7). A tale proposito è significativo l’accostamento dell’Albero della Croce con l’Ultima cena, nell’opera di Taddeo Gaddi (1300-1366) nel Cenacolo di Santa Croce a Firenze. Le ali degli uccelli, cosa sono se non un simbolo della natura spirituale degli angeli, onnipresenti nelle decorazioni delle nostre chiese? Le chiavi, simbolo del potere di Pietro.
In un mondo sacramentale ogni aspetto della realtà è un “link” (in effetti, symbolon significa proprio “collegamento”) dalle cose visibili a quelle invisibili: dal trifoglio, di cui – stando alla leggenda – S.Patrizio si servì per far capire la Trinità, fino all’oro delle icone, che si riferisce a una luce divina che neanche il celeste riesce più ad esprimere: «non a caso le antiche testimonianze chiamano i sommi mastri della pittura d’icone filosofi, benché nel senso della teoria astratta essi non abbiano scritto una sola parola. Ma con le luminose visioni celesti, questi pittori d’icone testimoniarono del Verbo incarnato con le dita delle mani e veracemente filosofarono coi colori» (Pavel Florenskij). Nella liturgia (e non dimentichiamo che tanta arte cristiana è nata per la liturgia e in funzione di essa), dove si realizza l’ “ecosistema divino” si raggiunge il culmine di questa sacralizzazione del mondo: dagli alberi e al bestiame, che i salmi cosmici chiamano alla Lode universale, al fuoco, l’acqua, l’olio, fino al pane e al vino che diventano realmente ciò che significano, Corpo e Sangue di Cristo: tutto acquista un nuovo senso, inaugurando la nuova Creazione.
Potremmo affermare che l’arte esiste perché il mondo è sacramentale. Il servo di Dio mons. Fulton Sheen (1895-1979) affermava che «Nostro Signore aveva un divino senso dello humor, perché Egli ci ha rivelato che l’universo era “sacramentale”». Agli occhi di Cristo non erano insignificanti neanche i cammelli, le crune d’ago, le monete smarrite e ritrovate, i gigli del campo né le lampade sopra o sotto il moggio, oggetto delle sue parabole. Di fatto, non si spiegherebbe il proliferare di bellezza scaturito dall’alleanza tra arte e fede senza questo continuo collegamento tra elementi visibili e significati invisibili, senza questo divino senso dello humor che faceva dire a mons. Sheen che «quando la civiltà era permeata da una filosofia più felice, quando le cose erano viste come espressione visibile dell’invisibile, l’architettura era abbellita con migliaia di decorazioni: un pellicano che nutre i suoi figli con il proprio sangue simboleggiava il sacrificio di Cristo; la garguglia che faceva capolino da dietro una colonna in una cattedrale ci ricordava che le tentazioni possono raggiungerci persino nei luoghi più sacri. Nostro Signore, in vista del Suo ingresso a Gerusalemme, disse che se gli uomini avessero trattenuto la lode di Dio, “le pietre avrebbero gridato” [cfr Lc 19,43] come in effetti più tardi sono esplose nelle cattedrali gotiche».
La bellezza che ancora oggi ammiriamo, in gran parte è frutto di quella «filosofia più felice» che traspare dalle vetrate e dai rosoni delle cattedrali, dall’universo di simboli che la nostra ragione ristretta è divenuta quasi incapacedi decifrare, ma che, ricominciando ad aprire il libro della natura e quello della Scrittura, possono ancora toccare il cuore dell’uomo moderno il quale, per quanto volontariamente esiliato in un funzionalismo estremo, continua a lasciarsi stupire ogniqualvolta intravede un frammento di bellezza. Talora basta un frammento del passato che lasci riaffiorare il volto dell’eterno.
«L’ornamento è un delitto» secondo Adolf Loos (1870-1933), architetto viennese, il cui pensiero sembra all’origine di gran parte del nostro “paesaggio” quotidiano dominato dall'(anti)estetica dei casermoni, da edifici sordi e grigi, ma soprattutto muti: «Adesso le pietre tacciono, per l’uomo moderno che non crede più nell’altro mondo. Non hanno storie da raccontare, nessun significato da trasmettere, nessuna verità da illustrare» (Fulton Sheen). Anche l’uomo diviene un oggetto, un elemento da sfruttare per il proprio interesse o da eliminare se diviene un ostacolo, ma non più da circondare di quella riverenza e dignità che spettano all’immagine di Dio.
«La cortesia conserva l’amore», dice Papa Francesco, e la scomparsa della cortesia nel nostro mondo va di pari passo con l’avanzare del brutto: la creazione più originale dei totalitarismi sono stati i lager e i gulag e le nostre periferie architettoniche sembrano degna cornice a quelle periferie esistenziali in cui vagano branchi di adolescenti cui nessuno ha insegnato, non dico a fare il segno della croce, ma neanche a non sputare per terra – i cui occhi tuttavia tornerebbero a illuminarsi se qualcuno li aiutasse a guardare di nuovo in alto… «La cortesia nasce dalla santità, come l’ornamentazione nasce dal senso del sacro. Vediamo se l’ornamentazione ritorna all’architettura, se la cortesia ritorna nelle umane maniere; Poiché con l’una e con l’altra l’uomo perderà la propria monotona seriosità e inizierà a vivere in un universo sacramentale con un divino senso dello humor» (Fulton Sheen).
Con questo nuovo sguardo torneremo a gustare – con gioia! – l’intera realtà, persino nella fatica, come nel racconto riferito da Peter Kreeft:
«Mi è venuta in mente la storia dei due uomini che trasportavano pietre in una fangosa strada medievale. Uno stava bestemmiando mentre l’altro stava cantando. Un viaggiatore chiese loro che cosa stessero facendo. Quello che bestemmiava rispose: “Sto cercando di far rotolare questo dannato masso su questo dannato fango!”. Quello che cantava replicò: “Sto costruendo una cattedrale”»
Stefano Chiappalone