Chiunque abbia letto i Racconti di un pellegrino russo, non può fare a meno di subire il fascino delle molteplici prospettive che emergono tra le righe di questo classico della spiritualità orientale scritto da un autore anonimo della metà del XIX secolo: “la severa ascesi di origine bizantina e la tensione itinerante dei pellegrini russi, l’angustia di una cella monastica e le distese sconfinate della Siberia, l’atmosfera narrativa fiabesca e sacrale della Santa Russia, ma sullo sfondo le tensioni culturali e sociali che avrebbero determinato nel volgere di pochi decenni il crollo di questo mondo” (Aldo Ferrari, prefazione alla trad.it., ed. Città Nuova).
L’espressione “Santa Russia” evoca spazi immensi e anime capaci di immensità, superando i confini spazio temporali, per confrontarsi con quella storia che iniziò mille anni fa con la conversione del santo principe Vladimir (958-1015), subito fecondata dal martirio dei suoi figli, i principi Boris e Gleb (+1015) e successivamente plasmata dall’esperienza ascetica di San Sergio di Radonez (1314 ca.-1392) – tutti e quattro venerati sia dalla Chiesa cattolica sia dalle Chiese ortodosse. L’anima russa è sanamente inquieta, ansiosa di peregrinare non solo attraverso quella patria dagli spazi infiniti, ma soprattutto attraverso il mistero, mai rifiutato, anzi costantemente presente – almeno come termine di confronto: a metà del secolo XIX (la stessa epoca dei Racconti) “la società, il pubblico, i critici, iniziarono a chiedere alla letteratura e alla pittura, qualcosa di più dell’ ‘arte per l’arte’. L’intelligentsia russa era affamata di risposte alle più essenziali questioni della vita e dello spirito” (Yevgenia Petrova, Personal Religiousness and Religious Consciusness among Russian Artists at the Turn of the 20th Century). Da quest’ansia di confronto col mistero e con la persona di Cristo, scaturiscono esiti molto differenti, tra i quali emerge l’opera genuinamente religiosa del pittore Mikhail Nesterov (1862-1942) che non sarebbe errato definire il cantore della “Santa Russia” e autore dell’omonimo dipinto da cui prende le mosse lo storico Pierre Kovalevsky (1901-1978) nel suo volume San Sergio e la spiritualità russa:
“Il quadro rappresenta Cristo mentre percorre le pianure e le foreste della Russia, seguito da San Nicola (270-343), San Sergio e dal principe Boris, attirando a sé l’intero popolo avido della sua parola. Il quadro è emblematico della spiritualità russa in quanto, proprio per merito dei due patroni del paese – l’uno adottivo e l’altro uscito dal suo seno – e dietro l’esempio del saggio principe Boris, milioni di anime nel corso dei secoli si sono rivolte al Salvatore e hanno formato quella che chiamiamo ‘Santa Russia’”.
È un dipinto talmente paradigmatico dello spirito russo che – ci informa ancora Kovalevsky – le sue riproduzioni “adornano ancor oggi i casolari della grande terra”
Il paesaggio in cui è ambientata la scena fu ispirato a Nestorov dal suo soggiorno al monastero delle isole Solovki, tristemente noto poi nel secolo seguente, quando il regime comunista lo tramutò in campo di deportazione. È una scena invernale ma tutt’altro che fredda. Il Mar Bianco immobile sullo sfondo richiama alla mente quel “mare trasparente simile a cristallo” di cui parla l’Apocalisse (4,6). Il candore del mare e della neve sembra piuttosto emanare direttamente dalla veste bianchissime di Cristo: “la sua veste era candida come la neve”(Dn 7,9) leggiamo nella visione di Daniele che la liturgia della Trasfigurazione riferisce al Salvatore.
A destra c’è una donna dagli occhi stralunati, accompagnata da due figure che la conducono dall’unico che può guarirla. La donna alla sua destra la sorregge, visibilmente preoccupata, mentre l’altra figura, più anziana, incappucciata in un abito religioso, sgrana il rosario quasi estraniata. A pochi passi, altre due donne vanno a implorare chissà quali grazie, appoggiandosi a un bastone per superare un piccolo dislivello nel terreno. Un secondo gruppo di pellegrini, più numeroso e più variegato, occupa la parte centrale del dipinto, trovandosi faccia a faccia col Salvatore, accompagnato dai tre santi che sembrano uscire dalla chiesa alle loro spalle, quasi un’epifania della corte celeste che esce direttamente dal santuario terreno.
Il Principe Boris appare assorto, San Sergio e San Nicola guardano con compassione il gruppo di pellegrini dai quali fuoriesce una figura prostrata a terra, proprio ai piedi di Cristo, immobile, con le braccia distese lungo i fianchi, verso cui convergono tutti gli sguardi facendone la figura centrale, pur non trovandosi al centro del dipinto. “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 45,3) ed in effetti il suo portamento regale si distingue in mezzo a quella misera folla realisticamente ritratta da Nesterov. Non si distingue tuttavia per altezzosità, al contrario “avanza per la verità, la mitezza e la giustizia” (Sal 45,6). Il suo sguardo maestoso è alla stessa altezza dell’ossessa che si trova sul lato opposto, che forse proprio in quel momento cruciale viene sanata. Egli santifica quelle nevi, posando il suo piede su di esse, “predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità” (Mt 9,35) per le strade della Santa Russia, così come faceva duemila anni fa in Palestina.
“L’appellativo ‘Santa Russia’ – prosegue Kovalevsky – non è parola vana; per il popolo russo l’ideale della santità rappresenta il valore supremo. L’ideale verso il quale si tende non è l’ideale del benessere, ma quello della santità. Tale è il fondamento della spiritualità russa”. L’ideale della santità fu raggiunto in modo mirabile da San Sergio di Radonez, “grande maestro della vita monastica russa e protettore della Russia” (San Giovanni Paolo II, 4 ottobre 1992), figura chiave nell’esperienza artistica di Nesterov che era particolarmente affezionato al dipinto raffigurante La visione del giovane Bartolomeo – questo era infatti il nome da secolare del futuro San Sergio. Il piccolo Bartolomeo era stato beneficiario di eventi mistici sin dal grembo materno e il sacerdote che lo battezzò, profetizzò ai suoi genitori che sarebbe stato un “ricettacolo eletto da Dio e servitore della Trinità” – e proprio alla Santa Trinità è intitolato il monastero da lui fondato, successivamente chiamato Trinità-San Sergio.
Tuttavia da bambino sperimentò enormi difficoltà di apprendimento, soffrendo per i rimproveri del maestro e la derisione dei compagni, finché all’età di sette anni sotto una quercia vide un misterioso monaco. Il ragazzino gli espose le sue difficoltà e il monaco gli porse un pezzo di pane liturgico dicendogli: “Questo ti è dato come segno della grazia divina per comprendere le Scritture”. Dopo quell’episodio nessuno vide più il vegliardo, che la tradizione identifica con un angelo, ma da quel giorno Bartolomeo godette di una sapienza che andò via via crescendo, facendone poi negli anni della vita monastica, ormai divenuto Sergio, un punto di riferimento persino per il metropolita di Mosca. Possiamo riviverlo nel dipinto di Nesterov, dove persino la natura è irradiata da quell’aureola di luce soprannaturale che incornicia il capo del monaco. I colori dell’autunno dai riflessi dorati partecipano del miracolo di cui è protagonista il bambino al centro della scena – in realtà una bambina che Nesterov prese a modello dopo numerosi tentativi di trovare il volto “giusto” – dall’espressione seria e concentrata, le mani giunte, di fronte alla massa scura del monaco che sembra fare tutt’uno con la quercia. Gli alberi, gli edifici, i sentieri e i campi, le colline e l’immancabile immensa distesa sullo sfondo contribuiscono al silenzio immobile della scena, come se fosse il paesaggio a contemplare i protagonisti. In questa e altre opere, non solo il tema, non solo i soggetti raffigurati, ma la natura stessa è aperta al mistero.
Nesterov dedicò un intero ciclo di dipinti a San Sergio di Radonez – l’avvento della rivoluzione bolscevica lo costrinse successivamente a deporre i temi religiosi nella seconda parte della vita – tuttavia restò particolarmente affezionato a questo misterioso incontro che segnò l’infanzia del santo fondatore della spiritualità russa, dipingendone più versioni, ma soprattutto affermando:
“Io non vivrò a lungo, ma ‘Il giovane Bartolomeo’ vivrà. Se dopo trenta o cinquant’anni dalla mia morte la gente ancora ne discuterà, allora vivrà e io vivrò con lui”.
È trascorso oltre un secolo dal dipinto, e più di settant’anni dalla morte dell’artista e le opere di Mikhail Nesterov ancora ci parlano di un mondo aperto all’irruzione del soprannaturale, con la loro atmosfera fiabesca capace di ridestare lo stupore di fronte a quella meravigliosa “fiaba” realmente accaduta che è il Vangelo.
Stefano Chiappalone