A Milano impazza ormai la campagna elettorale, con cattolici che, ancora una volta, si dividono in due schieramenti (centrodestra e centrosinistra, senza contare i grillini, le cui dimensioni in città sono state evidenziate dalla folla ai funerali – religiosi – di Gianroberto Casaleggio a S. Maria delle Grazie) a sostegno dei candidati principali, entrambi manager di passati sindaci di centrodestra, Stefano Parisi e Giuseppe Sala. Quest’ultimo, però, ora candidato di punta del PD.
Nell’intervista che rilascia a TV2000 il card. Angelo Scola premette che
“di per sé può non essere un segno negativo fare ricorso a personalità che vengono da altri mondi”, ovvero ai manager anziché ai politici di professione, “a condizione che questo sia funzionale alla ricostruzione di una modalità di partecipazione politica diretta” dei cittadini in un’epoca post-ideologica e quindi post-partiti.
Durante le visite pastorali l’arcivescovo constata che da più parti sta risorgendo una certa voglia di partecipazione, ma non ha ancora trovato una rappresentanza istituzionale. Paragona la “nuova Milano” ad un’avventura da costruire, una sfida che si pone davanti a tutta l’eredità politica e culturale del Novecento senza distinzioni.
“E’ tutta spalancata al futuro, c’è un grande dinamismo in atto (…), un gusto, una voglia, che io tocco con mano, che fa ben sperare. A patto che ciascuno con la sua visione delle cose persegua un significato” globale dell’essere città.
L’intervistatore cerca di attirare l’arcivescovo nel discorso caldo dell’immigrazione clandestina e dei profughi. Il card. Scola coglie l’occasione per ribadire come anche in questo caso abbiano nuociuto visioni unilaterali che alimentano spesso la paura, mentre occorre convergere soprattutto a livello di continente. Le singole regioni dell’Europa non possono essere abbandonate a se stesse, come accade oggi, ma il flusso andrebbe affrontato “con un nuovo piano Marshall”. Il riferimento al piano di ricostruzione del 1948 non è casuale: oltre a dare il senso dell’ampiezza del compito, avverte che non si può limitare ad una semplice accoglienza indiscriminata, ma deve puntare a ricostruire i Paesi da cui i profughi fuggono, affinché possano rincasare. Giunge quindi la domanda sul Cattolicesimo politico.
“Io personalmente reputo che il Cattolicesimo politico sia finito”,
perché è finita un’epoca che trovava nella DC persino un’incarnazione teologico-pastorale. I cattolici, specialmente i laici, non possono però evitare neppure oggi lo scoglio di un impegno che possa giungere alla dimensione politica. Essi ripartano da 0
“consapevoli che siamo in una società plurale, in cui bisogna raccontare ed agire nei fatti per mostrare come lo stile di vita implicato nella Fede è universalmente valido” ed appetibile.
A livello amministrativo bisogna dimostrare “molta concretezza (…) dal carbone all’acciaio”. I bisogni della gente vanno raccolti ed innestati “in un senso del vivere”. E’ il grande dramma della contemporaneità “liquida”. Chi prenderà le redini della cosa pubblica dovrà dimostrare soprattutto di avere una visione completa del mondo dietro la premura verso “le buche nell’asfalto”.
Michele Brambilla