di Michele Brambilla
I giornalisti presenti in sala il 7 luglio sono certamente rimasti colpiti dalle dichiarazioni di umiltà del nuovo arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, che, in presenza del card. Angelo Scola, ha scherzosamente sottolineato la sua “impreparazione congenita” al ministero assegnatogli. “Tutti gli arcivescovi di Milano hanno nomi solenni: Angelo, Dionigi, Carlo Maria, Giovanni, Alfredo Ildefonso. Mario che nome è?”.
Tuttavia, sono emersi subito anche i possibili caratteri di questo episcopato, conscio delle problematiche complesse che dovrà affrontare, ma già protesto missionariamente verso le folle. “La prima cosa che chiederò allo Spirito Santo è il dono della gioia. Papa Francesco, venendo a Milano ha ribadito che con il Vangelo viene la gioia. Sarei contento se lo Spirito Santo incrementasse la gioia di noi milanesi che siamo bravi, intelligenti, ma sempre un po’ scontenti, lamentosi”.
L’omelia pronunciata la domenica successiva a Jerago con Orago, paese amatissimo da mons. Delpini perché vi è cresciuto, approfondisce questa dinamica positivamente missionaria. “Molti rischiano di ignorare la visita di Dio che può riempire la casa di gioia e di speranza”. Il discorso si articola quindi in due parti: la denuncia dettagliata del malessere spirituale dell’uomo post-moderno e l’apporto specifico dei cristiani in questa società.
I cattolici contemporanei “vivono tra gente (…) impigliata nell’immediato, che è insicura per la precarietà di tutto, ma spaventata dalla chiamata alla definitività; gente che vorrebbe essere amata per sempre, ma dichiara il “per sempre” un peso insostenibile; gente che vorrebbe che gli altri fossero affidabili, che ci fossero cose stabili come la famiglia, il lavoro, il conto in banca, ma trova noiosa la stabilità e frustrante la ripetizione; gente combattuta tra l’inquietudine dell’insicurezza e l’ebbrezza dell’assenza di vincoli”.
Proprio per questo i credenti emergono nel panorama come gli unici “certi di essere chiamati non a una vita che finisce nel nulla, ma nella vita eterna”. La missione, per mons. Delpini, passa quindi per la via pulchritudinis della vita cristiana vissuta, ovvero attraverso un impatto non verbale che stupisce e spalanca alla domanda di senso. Solo chi possiede una speranza affidabile costruisce e procrea. Una missionarietà che nulla rinnega del passato e delle sue forme di fede, tanto che subito dopo questa omelia mons. Delpini si reca a benedire una cappella stradale dedicata alla Madonna, offerta dai parenti stessi dell’arcivescovo eletto.
Nel magistero di mons. Delpini si ripropone, quindi, la visione “scoliana” della “società plurale”, in cui i cattolici ambrosiani, in un contesto fattosi anche in Italia “competitivo”, collaborano al bene comune riproponendo senza reticenze la propria dottrina sociale e formando ad essa un popolo che ha già dimostrato in passato di saperla fruttuosamente incarnare in contesti anche più difficili. Una Chiesa che non rinuncia nemmeno alla sua dimensione popolare (oratori, processioni…), ma la trasforma in un ulteriore tassello apologetico che mostri la bellezza convincente e “conveniente” della vita cristiana.