“Dentro la tensione che esaspera la città (…) si intromette l’uomo dell’istituzione, prende la parola un funzionario, custode dell’ordine pubblico. L’uomo dell’istituzione si chiama Aurelio Ambrogio”. Il governatore della provincia romana di Emilia e Liguria nel 374 era solo un catecumeno, tuttavia il modo profondamente etico con il quale svolgeva il suo compito per conto dell’Impero romano rappresentò forse l’elemento più convincente nel designarlo vescovo di Milano. Fu acclamato pastore da quegli stessi cittadini che lo avevano conosciuto come buon magistrato della res publica.
Sarebbe fin troppo facile commentare che non ci sono più gli amministratori di una volta, sebbene molti vedano un’analogia tra i tempi che stiamo vivendo e il IV secolo di Ambrogio, epoca di crisi dell’Impero e di difficile transito verso il mondo della Cristianità medievale. Pertanto, dopo aver rievocato l’antico episodio della vita del Patrono, mons. Mario Delpini esordisce, nel suo primo discorso di S. Ambrogio, con un sorprendente “elogio delle istituzioni”, o, meglio, di coloro che nelle istituzioni civili fanno silenziosamente il proprio dovere con abnegazione e onestà, avendo a cuore il bene di tutta la cittadinanza.
E di istituzione fondamentale non ne dimentica nessuna, anche quelle che popolarmente non designeremmo con quel nome: politici (in particolare i sindaci), forze dell’ordine, insegnanti, presidi e bidelli, operatori sanitari, pompieri, protezione civile, assistenti sociali, giudici, soldati, cooperative, associazioni della società civile. Davanti a tutti costoro l’arcivescovo in carica rinnova l’appello dell’arcivescovo emerito, il card. Angelo Scola (insignito il 7 dicembre dell’Ambrogino d’oro), ad un’amicizia civica per il bene comune. “Voglio formulare a nome della comunità cristiana e della Chiesa ambrosiana l’intenzione di proporre un’alleanza, di convocare tutti per mettere mano all’impresa di edificare in tutta la nostra terra quel buon vicinato che rassicura, che rasserena, che rende desiderabile la convivenza dei molti e dei diversi, per cultura, ceto sociale e religione”.
Questa alleanza, soprannominata “patto di buon vicinato”, passa anche per piccoli gesti, come la proposta di auto-tassazione dei cittadini secondo il sistema delle decime comunitarie, che consistono nel “mettere a disposizione” volontariamente “della comunità in cui si vive la decima parte di quanto ciascuno dispone”, compreso il tempo. “La vita condivisa, nel piccolo villaggio come nella città, dimostra che la libertà può essere organizzata in una forma comunitaria ragionevole, che la comunità è meglio della solitudine, che la legge è meglio dell’arbitrio”.
Il nemico designato è l’individualismo esasperato che sappiamo essersi generato nel Sessantotto. “L’individualismo egocentrico ha radici lontane e una forza persuasiva e pervasiva impressionante, alimentata da enormi interessi. È infatti evidente che chi è solo è più debole e più facilmente manipolabile, anche se pensa di essere più tranquillo: ridurre le persone a individui, rendere labili i rapporti, fragili le famiglie, instabili gli affetti”.
La mentalità dominante insiste a seguire quel disastroso binario. “La società è così esposta al rischio di essere sterile, senza bambini e senza futuro, e le persone isolate, senza famiglia e senza comunità”, facile preda di chi li vuole asservire al suo potere ideologico, politico ed economico. Ma di fronte a questi pericoli l’arcidiocesi ambrosiana è e rimarrà sempre sulla breccia.