La giornata di digiuno e preghiera indetta dal Papa per l’ex-Congo belga, dove da dicembre il governo non esita a sparare su sacerdoti e fedeli cattolici inermi nel tentativo di reprimere la richiesta di elezioni libere, si interseca con il primo venerdì di Quaresima (23 febbraio) e, quindi, anche con la prima tappa della Via Crucis itinerante presieduta dall’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, che sosta ad Erba.
Nonostante il freddo pungente, anticipo della buriana russa attesa per lunedì, i fedeli che si incolonnano dietro l’arcivescovo sono come sempre moltissimi e provengono da ogni angolo della Zona pastorale III (Lecco). Tanti altri si affacciano dalle finestre, decorate con lumini e drappi rossi. L’Africa è lontana, ma il mistero della sofferenza attraversa anche le case degli italiani. Il dolore ha senso solo se si guarda al Crocifisso, come sostiene mons. Delpini: “Non contate Gesù crocifisso tra i crocifissi della storia come un numero in più nel tragico calcolo dei giusti ingiustamente uccisi. Non raccontate la vicenda di Gesù come una storia fra tante, una conferma che anche lui non ha potuto far niente di fronte alla crudeltà e alla stupidità umana. (…) Infatti, questa morte è l’evento che sconfigge la morte, questo soffrire è la comunione che semina, in ogni soffrire, una vocazione all’amore: questa solitudine è lo spettacolo che attira tutti gli sguardi e li unisce in una comunione e questo strazio è il grido che squarcia il velo del tempio e rivela il volto di Dio e la sua presenza”.
Il prevosto di Erba, mons. Angelo Pirovano, rassicura mons. Delpini all’inizio della processione che il vessillo della croce di Cristo è ben piantato nelle terre di questa parte di Lombardia e continuerà ad essere seme di nuova umanità. “(…) siamo onorati che lei celebri la prima Via Crucis quaresimale in un luogo che affonda le sue radici nel V secolo, quando da “Sant’Eufemia””, ovvero il gruppo delle parrocchie erbesi, riunite in comunità pastorale, “si è irraggiata la fede nell’alta Brianza. La stessa fede ci riunisce qui stasera, per costruire una grande famiglia come chiede il Sinodo “Chiesa dalle Genti”, reso visibile dalla croce”.
L’arcivescovo, conscio della sfida che comporta la nuova evangelizzazione, ringrazia i presenti ed ammonisce che “ciò che raduna gli uomini e le donne nella Chiesa di Dio non sono le coincidenze della storia, il fatto di essere, per caso, nati qui; non è la simpatia o il bisogno di farci coraggio a vicenda, non è la buona volontà dell’accoglienza, non è la condiscendenza, non è la buona educazione. Ciò che ci raduna è, invece, la vocazione con cui tutti siamo chiamati” a seguire Cristo in vita ed in morte. La morte di Cristo non fu dissimile dallo spirare di molti altri uomini, tuttavia “è unica tra tutte le morti, perché ci salva e a questa morte si appoggia chi vive” per non morire eternamente.
“Anche il cammino che stiamo compiendo come Chiesa formata dalle genti sia alla sequela di Gesù. Non c’è altro nome sotto il cielo in cui gli uomini possono essere salvati”. Il fedele cattolico all’immigrato che sbarca deve annunciare unicamente l’amore di Gesù Cristo, senza cedimento alcuno ad ideologie per le quali il povero è solo uno strumento per fare la Rivoluzione.