Relazione tenutasi in occasione del Ritiro di Alleanza Cattolica per il Lombardo Veneto sabato 22 settembre 2012 a Rho (MI) presso il Collegio dei Padri Oblati del Santuario della BV Addolorata di Rho.
1. La comunicazione efficace
- EVANGELIZZAZIONE significa Annuncio
- MARTIRIO significa Testimonianza
MISSIONARIO significa “inviato”, colui che parte per dare l’annuncio della Buona Novella e per testimoniarne la verità con la propria vita e anche a costo della propria vita. “Guai a me se non predicassi il Vangelo”, ammonisce san Paolo.
Poiché la dimensione missionaria è insita nella natura stessa di ciascun cristiano, ne deriva che la vita di ogni battezzato deve essere anzitutto tensione verso l’annuncio e la testimonianza. Questo dovere fondamentale implica la capacità di COMUNICARE.
La Comunicazione necessita almeno di due elementi essenziali: il CONTENUTO (cosa comunico) e la MODALITA’ (come comunico).
Troppo spesso ci si concentra esclusivamente sul contenuto e si trascura la modalità. In realtà la modalità incide in misura determinante sull’efficacia della comunicazione e quindi avere un contenuto importante da comunicare di per sé non garantisce una efficace comunicazione.
Stephen COVEY distingue 4 tipi di comunicazione:
- leggere
- scrivere
- parlare
- ascoltare
Nella gran parte dei casi, la “funzione Ascoltare” risulta disattivata: l’assenza di ascolto, soprattutto di ascolto attento o empatico del nostro interlocutore, rischia di vanificare completamente la capacità di comunicare.
«Nella maggior parte dei casi, le persone non ascoltano con l’intento di capire; ascoltano con l’intenzione di rispondere. O parlano o si preparano a parlare: Filtrano qualsiasi cosa attraverso i loro paradigmi, leggono la loro autobiografia nella vita degli altri» (S. Covey, I sette pilastri del successo).
Chi comunica deve avere la capacità di mettersi in sintonia con il proprio interlocutore, deve saperlo anzitutto ascoltare.
- La comunicazione e la missione della Chiesa
La Chiesa si pone fin dalla propria fondazione il problema dell’annuncio, che rappresenta l’unico vero scopo della sua stessa esistenza.
Il Cristianesimo, a differenza delle altre religiosità basate sulla ricerca del divino da parte dell’uomo, riconosce una realtà straordinaria: è Dio che cerca gli uomini e lo fa manifestandosi ad essi.
Dio parla agli uomini attraverso la Creazione (liber naturae), la Persona di Cristo (in principio era il Verbo), la tradizione viva della Chiesa, la Sacra Scrittura.
Di fronte ad un Dio che parla è necessario quindi, innanzitutto, un atteggiamento di ASCOLTO, di comprensione e quindi di trasmissione della Parola.
Fin dalle proprie origini, quindi, la Chiesa si pone di fronte ad una duplice necessità: definire il DEPOSITUM FIDEI, risolvendo anzitutto le complesse questioni relative alla natura di Gesù Cristo ed alla Trinità, e trasmetterlo al mondo intero attraverso l’annuncio (Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura Mc. 16,15).
Se nei primi secoli, grazie soprattutto ai primi Concili ecumenici, il contenuto della Fede viene approfondito, chiarito e definito, il problema dell’annuncio e della sua efficacia attraversa necessariamente tutti i tempi e costituisce una sfida permanente per la comunità dei credenti.
«Paolo, dopo aver predicato in numerosi luoghi, giunto ad Atene, si reca all’areopago, dove annunzia il Vangelo, usando un linguaggio adatto e comprensibile in quell’ambiente. (At 17,22) L’areopago rappresentava allora il centro della cultura del dotto popolo ateniese, e oggi può essere assunto a simbolo dei nuovi ambienti in cui si deve proclamare il Vangelo» (Redemptoris Missio, n. 37).
Alcuni esempi di comunicazione efficace perché capace anzitutto di ascolto delle esigenze specifiche dei destinatari dell’annuncio:
- Santi Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei popoli slavi: invenzione dell’alfabeto cirillico
- La trasposizione scritta delle lingue indigene da parte dei primi missionari nel nuovo mondo (F. Pappalardo:«Di fronte al lento progresso dell’evangelizzazione dei primi anni — rivolta a popoli idolatri e lontani culturalmente dalla mentalità europea —, i missionari comprendono che è necessario conoscere a fondo la mentalità e la cultura indigena per presentare il Vangelo nel modo più adeguato. Con un lavoro di autentica premessa all’inculturazione essi studiano le istituzioni, gli usi e i costumi degli indios, raccolgono con amore le testimonianze culturali amerinde più antiche — dando inizio alla moderna etnografia — e apprendono gli idiomi locali, dedicandosi anche alla stesura di grammatiche, di vocabolari e di frasari di conversazione. In questo modo fanno compiere alle lingue indigene, fino ad allora soltanto orali, un incommensurabile salto qualitativo, elevandole all’astrazione della scrittura alfabetica, che dà loro la possibilità di superare l’arcaica struttura che le caratterizzava e di pervenire alla cultura riflessiva»)
- Gli apostoli della Cina: il servo di Dio Matteo Ricci nel 500 e san Giuseppe Freinademetz nell’800.
- Il problema di Internet e dei social network (Benedetto XVI:«Nei primi tempi della Chiesa, gli Apostoli e i loro discepoli hanno portato la Buona Novella di Gesù nel mondo greco-romano: come allora l’evangelizzazione, per essere fruttuosa, richiese l’attenta comprensione della cultura e dei costumi di quei popoli pagani nell’intento di toccarne le menti e i cuori, così ora l’annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo»).
- Il Concilio Vaticano II
Il senso profondo del ventunesimo Concilio ecumenico, celebrato in Vaticano dal 1962 al 1965, risiede precisamente nella consapevolezza della necessità di rendere maggiormente efficace la comunicazione della buona novella, cioè l’evangelizzazione, nel contesto della modernità.
Non è possibile una analisi obiettiva del Concilio Vaticano II che prescinda dal contesto nel quale si svolge, giacché è proprio la unicità e la gravità del nostro tempo ad avere indotto la Chiesa alla riflessione profonda sull’evangelizzazione dell’uomo contemporaneo.
Quali sono i tratti fondamentali del nostro tempo? Li descrive molto bene Paolo VI nel discorso di chiusura del Concilio quando dice: «… un tempo, che ognuno riconosce come rivolto alla conquista del regno della terra piuttosto che al regno dei cieli; un tempo, in cui la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra, a torto, suggerita dal progresso scientifico; un tempo, in cui l’atto fondamentale della personalità umana, resa più cosciente di sé e della sua libertà, tende a pronunciarsi per la propria autonomia assoluta, affrancandosi da ogni legge trascendente; un tempo, in cui il laicismo sembra la conseguenza legittima del pensiero moderno e la saggezza ultima dell’ordinamento temporale della società; un tempo, inoltre, nel quale le espressioni dello spirito raggiungono vertici d’irrazionalità e di desolazione; un tempo, infine, che registra anche nelle grandi religioni etniche del mondo turbamenti e decadenze non prima sperimentate». (Paolo VI, Allocuzione di chiusura, 7 dicembre 1965)
Dopo i grandi Concili dell’antichità, rivolti alla definizione dei contenuti della fede, e dopo gli ultimi due Concili del millennio dedicati a contrastare le spinte centrifughe del protestantesimo, del nazionalismo religioso e della negazione del primato petrino (Trento e Vaticano I), la Chiesa ritiene indifferibile un esame attento della propria missione in un contesto filosofico, sociale, politico, economico profondamente mutato nel corso degli ultimi due secoli.
Il programma del Concilio è esattamente quello «di indagare più accuratamente ed ampiamente quale fosse in questa nostra epoca la condizione della Fede, della pratica religiosa, dell’incidenza della comunità cristiana e soprattutto cattolica». (Giovanni XXIII, discorso di apertura del CVII).
I precedenti Concili avevano quindi affrontato delicate questioni attinenti al CONTENUTO del messaggio: adesso il contenuto non è più in discussione. Il problema è rappresentato dalla capacità di comunicarlo efficacemente agli uomini ed alle società del tempo presente.
«Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace. […] Ma perché tale dottrina raggiunga i molteplici campi dell’attività umana, che toccano le persone singole, le famiglie e la vita sociale, è necessario prima di tutto che la Chiesa non distolga mai gli occhi dal sacro patrimonio della verità ricevuto dagli antichi; ed insieme ha bisogno di guardare anche al presente, che ha comportato nuove situazioni e nuovi modi di vivere, ed ha aperto nuove vie all’apostolato cattolico» (Giovanni XXIII, discorso di apertura del CVII).
Non che il nostro tempo, evidentemente, non fosse pieno di errori meritevoli di condanna, degni di essere additati al popolo cristiano come deviazioni gravissime, oggetto di scomunica o di anatema.
Giovanni XXIII, pur denunciando esplicitamente l’esistenza di gravi errori e di dottrine pericolose, individua una priorità evidente: la condanna di un errore ha un senso ed una concreta efficacia se esiste una Verità condivisa il cui richiamo renda evidente l’errore stesso agli occhi e al cuore dei nostri interlocutori: «[…] la Sposa di Cristo pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando».
Come chiarisce il beato Giovanni Paolo II nella Costituzione apostolica Fidei Depositum (11 ottobre 1992), «Al Concilio il Papa Giovanni XXIII aveva assegnato come compito principale di meglio custodire e presentare il prezioso deposito della dottrina cristiana, per renderlo più accessibile ai fedeli di Cristo e a tutti gli uomini di buona volontà. Pertanto il Concilio non doveva per prima cosa condannare gli errori dell’epoca, ma innanzitutto impegnarsi a mostrare serenamente la forza e la bellezza della dottrina della fede»
La priorità del nostro tempo è proprio quella di riproporre in modo comprensibile ed efficace la Verità smarrita.
«Il ventunesimo Concilio Ecumenico — … — vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica […] occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione» (Giovanni XXIII, discorso di apertura del CVII).
Vi è quindi piena consapevolezza del dovere di preservare l’integrità del Depositum fidei e vi è l’altrettanto forte consapevolezza che di fronte all’uomo moderno ferito, sanguinante e abbandonato da tutti sia necessario chinarsi sulle ferite piuttosto che lanciarsi all’inseguimento del malfattore, lasciando il moribondo al suo destino.
Lo spiega Paolo VI quando afferma «La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio». (Paolo VI, Allocuzione di chiusura, 7 dicembre 1965)
Una similitudine potrà aiutarci a comprendere meglio il concetto.
Dal punto di vista del pensiero, della filosofia, della cultura, del modo di organizzare i corpi sociali la situazione del nostro tempo è paragonabile a quella di una città bombardata durante un conflitto bellico. La differenza più rilevante, rispetto a questa similitudine, è rappresentata dal fatto che l’esito del “bombardamento ideologico” sono MACERIE INVISIBILI o, meglio, non immediatamente percepibili, come quelle fisiche e reali, se non a costo di un’analisi attenta, intelligente, profonda (e quindi faticosa).
La prima risposta seria e profonda alle macerie consiste nel mettere mano alla difficile opera di ricostruzione che deve necessariamente partire dalle fondamenta.
La società cristiana è scomparsa, travolta dall’onda della modernità rivoluzionaria e devastatrice, caratterizzata ora dal dominio dell’ideologia ora dal relativismo assoluto e dal pensiero debole. Una nuova dimensione anche sociale della fede, capace di diventare cultura, deve essere adesso faticosamente e pazientemente ricostruita: l’edificio finale, nei sui connotati estetici, funzionali, dimensionali sarà sicuramente diverso da quello esistito nel passato e raso al suolo dalle ruspe della Rivoluzione, ma se vorrà corrispondere al progetto per il quale verrà realizzato, dovrà fondarsi sulle medesime basi, avere le stesse solide e profonde fondamenta.
Certo, non è facile farsi ascoltare e comprendere, anzi l’equivoco, l’incomprensione, l’ambiguità sono in agguato quando si cerca di parlare con un mondo incapace di concepire l’esistenza stessa di Dio e quindi l’amorevole sollecitudine della Chiesa. I concetti di attenzione, ascolto, dialogo, persuasione si prestano a facili fraintendimenti, che è opportuno dissolvere attraverso il ricorso ai testi, ai documenti ufficiali, agli atti magisteriali, assai meno ambigui del pretestuoso “spirito del Concilio” inventato ad arte al servizio di una lettura ideologica e deformata della realtà.
Con questo atteggiamento possiamo allora comprendere cosa realmente intendesse dire il santo Padre nell’allocuzione conclusiva dell’assise conciliare:
«il magistero della Chiesa, pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l’attività dell’uomo; è sceso, per così dire, a dialogo con lui; e, pur sempre conservando la autorità e la virtù sue proprie, ha assunto la voce facile ed amica della carità pastorale; ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti; non si è rivolto soltanto all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di esprimersi anche con lo stile della conversazione oggi ordinaria, alla quale il ricorso alla esperienza vissuta e l’impiego del sentimento cordiale danno più attraente vivacità e maggiore forza persuasiva: ha parlato all’uomo d’oggi, qual è» (Paolo VI, Allocuzione di chiusura, 7 dicembre 1965)
- Il Catechismo della Chiesa Cattolica
Il Concilio ha avuto un esito ambiguo, a causa del suo travagliato post-concilio e della mentalità che ampi settori della Chiesa hanno fatto propria in ossequio ad una lettura parziale, ideologica e soprattutto falsa che del Concilio si è cercato di dare.
Il Sinodo del 1985 esprime l’esigenza di dare sostanza alle indicazioni insite negli obiettivi che avevano indotto il beato Giovanni XXIII a convocare l’assise ecumenica ed emerse dai documenti conciliari. Suggerisce quindi di predisporre un Catechismo universale che faccia chiarezza laddove il post concilio ha creato confusione e doti la nuova evangelizzazione di uno strumento sicuro ed indiscutibile.
Riprendendo i concetti espressi all’inizio: di fronte ad un Dio che parla è necessario innanzitutto, un atteggiamento di ASCOLTO, di comprensione e quindi di trasmissione della Parola.
La trasmissione della Parola, come avviene se dobbiamo insegnare o imparare una lingua straniera, presuppone l’esistenza di punti fermi oggettivi, chiari, comprensibili. Se i missionari del nuovo Mondo hanno potuto relazionarsi con le popolazioni locali partendo dalla codificazione del linguaggio, cioè dalla realizzazione di una grammatica elementare, allo stesso modo la nuova evangelizzazione ha bisogno di una sorta di “grammatica della fede” che consenta di evitare gli errori, tanto gravi quanto persistenti, del soggettivismo, del sentimentalismo, dell’eresia dell’azione solidaristico caritativa.
“La mia dottrina non è mia” (Gv. 7, 16), cioè non è frutto di una mia personale percezione soggettiva, non è uno stato d’animo della persona, ma è una realtà oggettiva, esterna a me e che io devo accogliere, custodire, vivere e trasmettere.
Come leggiamo nella Fidei Depositum, «Un catechismo deve presentare con fedeltà ed in modo organico l’insegnamento della Sacra Scrittura, della Tradizione vivente nella Chiesa e del Magistero autentico, come pure l’eredità spirituale dei Padri, dei santi e delle sante della Chiesa, per permettere di conoscere meglio il mistero cristiano e di ravvivare la fede del popolo di Dio. Esso deve tener conto delle esplicitazioni della dottrina che nel corso dei tempi lo Spirito Santo ha suggerito alla Chiesa. E anche necessario che aiuti a illuminare con la luce della fede le situazioni nuove e i problemi che nel passato non erano ancora emersi Il Catechismo comprenderà quindi cose nuove e cose antiche, poiché la fede è sempre la stessa e insieme è sorgente di luci sempre nuove»
- Conclusioni
Affinché la fede possa generare una CULTURA è necessario anzitutto che ci sia un FEDE! L’inculturazione della fede, autentica esigenza insopprimibile del nostro tempo, non può ridursi ad uno slogan di tipo ideologico, ma necessita di una fede matura, profonda, vissuta e capace di convertire le anime e di portarle verso l’ideale della santità.
Il Cristianesimo non è una ideologia, astratta e costruita a tavolino. Esso è essenzialmente l’incontro delle anime (e poi delle società) con la Persona di Cristo: «Il Regno di Dio non è un concetto, una dottrina, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è innanzitutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazareth, immagine del Dio invisibile» (Redemptoris Missio, n. 18).
Il Cristianesimo è una Persona e non un dottrina, ma certamente HA UNA DOTTRINA che trae alimento dalla storia dal momento che Dio ha radicato nel tempo storico la salvezza delle anime.
La CATECHESI è esattamente la sintesi delle verità di fede, la raccolta sicura (perché effettuata e certificata dalla Chiesa docente) dei contenuti fondamentali della fede cattolica. Come sappiamo nessun racconto può contenere tutta la verità nei minimi dettagli così come nessuna storia può essere raccontata e descritta per intero in modo completo (e nessuna carta geografica può rappresentare il reale in scala 1:1).
Questa sintesi sicura delle verità di fede, che la Chiesa propone attraverso lo strumento del CCC, si pone però come aiuto importantissimo a disposizione della formazione individuale e collettiva: è un mezzo privilegiato per fare sì che la storia della vita di ciascuno di noi (l’unica che possiamo davvero conoscere nei dettagli) venga vivificata su basi certe ed oggettive dall’incontro con la Persona di Cristo, determinando la conversione del cuore e la grazia della partecipazione piena alla comunione con la Chiesa, che ci garantisce la salvezza eterna.
«L’approvazione e la pubblicazione del “Catechismo della Chiesa Cattolica” costituiscono un servizio che il successore di Pietro vuole rendere alla Santa Chiesa Cattolica, a tutte le Chiese particolari in pace e in comunione con la Sede apostolica di Roma: il servizio cioè di sostenere e confermare la fede di tutti i discepoli del Signore Gesù, come pure di rafforzare i legami dell’unità nella medesima fede apostolica».
La strada della nuova evangelizzazione, che prelude alla riconquista dei cuori e delle società, passa necessariamente attraverso la riscoperta umile e perseverante del grande dono della Fede. Di questa opera di conversione e di civilizzazione dobbiamo essere protagonisti anzitutto con la nostra conversione e successivamente attraverso la testimonianza e l’annuncio della buona Novella, anche grazie allo studio e alla proposizione del CCC.
Come ricorda Giovanni Paolo II nella Lettera enciclica Redemptoris Missio, «La fede si rafforza donandola!» e, ancora, «La missione è un problema di fede, è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi». A questa considerazione segue l’ammonimento: «Nessun credente in Cristo, nessuna istituzione della Chiesa può sottrarsi a questo dovere supremo: annunciare Cristo a tutti i popoli».
Nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte (10 novembre 1994) Giovanni Paolo II indica con chiarezza la strada quando osserva che «Più l’occidente si stacca dalle sue radici cristiane, più diventa terreno di missione» e ancora «Con la caduta dei grandi sistemi anticristiani nel continente europeo, del nazismo prima e poi del comunismo, si impone il compito urgente di offrire nuovamente agli uomini e alle donne dell’Europa il messaggio liberante del Vangelo» (n. 57).
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Un’ultima considerazione non marginale: in questa doverosa opera di nuova evangelizzazione una oculata ed intelligente comunicazione è fondamentale, ma non sufficiente, dal momento che (come ricorda la Redemptoris Missio) «La chiamata alla missione deriva di per sé dalla chiamata alla santità. Ogni missionario è autenticamente tale solo se si impegna nella via della santità […]. L’universale vocazione alla santità è strettamente collegata all’universale vocazione alla missione: ogni fedele è chiamato alla santità e alla missione» (n. 90).
Secondo la medesima enciclica, «Il missionario deve essere “un contemplativo in azione” che trova risposta ai problemi nella luce della parola di Dio e nella preghiera personale e comunitaria» (n. 91).