Negli Stati Uniti il 2014 è anno di elezioni. Il 4 novembre si voterà infatti per rinnovare, come sempre avviene ogni due anni, tutta la Camera federale dei deputati (oggi 441 membri ) e un terzo dei 100 senatori federali. Non si tratta – come a volte si legge – di “elezioni amministrative”, ma è l’equivalente del voto che da noi serve per designare il parlamento – là il Congresso federale –, vale a dire l’organo legislativo del Paese. Per effetto della legge emanata dal Congresso nel 1845, che fissa inamovibilmente gli Election Day al primo martedì successivo al primo lunedì del mese di novembre di ogni due anni, le lezioni per il Congresso si svolgono una volta in concomitanza con l’elezione del presidente e del vicepresidente federali, e una volta (come accadrà quest’anno) a metà del mandato del presidente federale in carica, motivo per cui vengono dette di “medio termine”.
Come ogni elezione statunitense, l’Election Day di novembre sarà preceduto dalla lunga corsa delle elezioni primarie con cui le forze politiche in campo selezionano, attraverso il voto e il gradimento degli elettori, gli sfidanti ai seggi del Congresso. Saranno primarie vere, come sempre senza esclusione di colpi e inconfondibilmente legate alla capacità dei candidati, prima ancora che dei partiti che essi rappresentano, di stabilire (e mantenere) legami forti con settori specifici e quindi strategici dell’elettorato. Le si vedrà mediaticamente meno, soprattutto in Italia, rispetto alle primarie che ogni quattro anni designano gli sfidanti alla Casa Bianca (del resto sempre accompagnate da “meno mediaticamente viste” primarie atte a selezionare i candidati al Congresso che si sfidano frontalmente il giorno stesso in cui gli americani votano per il presidente e il vicepresidente), ma non sono affatto meno rilevanti.
Di genere, le elezioni di “medio termine” comportano infatti sempre anche un giudizio di gradimento espresso in pubblico e a “voce alta” sull’operato sia dell’Amministrazione che governa il Paese sia del Congresso eletto due anni prima assieme al presidente e al vicepresidente in carica, e quindi la scelta popolare di coloro che prima si proporranno e poi, se vittoriosi alle urne, s’incaricheranno di recapitare il suddetto messaggio di gradimento, quale che esso sia, riveste un interesse politico e culturale enorme. In specie, non va poi scordato che i latori di detto messaggio, oltre a svolgere questa funzione “d’urgenza” (mediaticamente più vistosa, ma non sempre, soprattutto a medio e a lungo termine, più importante), sono anzitutto decisivi nella produzione legislativa del Paese, e quindi spesso, anche in forza del loro numero, più rilevanti della pur rilevante figura politica del presidente (soprattutto in un assetto federale come quello statunitense). Il loro potere, nato e sancito costituzionalmente per bilanciare quello della Casa Bianca – rappresentando sia i cittadini americani considerati nel loro numero complessivo (la Camera) sia gli Stati dell’Unione ognuno abitato da un certo numero di cittadini e forte di una storia “locale” specifica (il Senato) –, ha infatti la capacità tecnica persino di limitare o di bloccare l’azione del governo. Il lungo processo democratico che li seleziona in vista delle urne a fronte di questo duplice importante compito è dunque di grande significato, e, se bene monitorato e interpretato, può fornire assai presto chiavi di lettura non banali del futuro politico del Paese.
Nel 2014, le primarie per le elezioni del Congresso saranno peculiari anche in vista di quel che accadrà due anni dopo, nel 2016, quando gli americani saranno nuovamente chiamati alle urne per eleggere il nuovo presidente federale. Barack Obama non sarà infatti più rieleggibile; alle sue spalle, sul fronte del Partito Democratico, la sua eredità, ingombrante sia per i sostenitori sia per gli avversari interni, è tutt’altro che facile da gestire, e infatti viene gestita ancora poco; mentre sul fronte del Partito Repubblicano preme la forte esigenza di uscire dall’empasse generato dalla sconfitta elettorale, nel 2012, di Mitt Romney. Sempre le elezioni di “medio termine” servono per testare candidati e strategie in vista delle successive presidenziali, ma per le ragioni suddette quelle di quest’anno lo faranno ancora di più.
Nel 2008, Obama, il primo presidente nero degli Stati Uniti (in realtà meticcio, e tecnicamente non afro-americano, visto che tale dizione si applica a rigor di termini solo ai discendenti degli ex schiavi americani), vinse le elezioni con un successo personale (cioè non di partito) senza precedenti, incentrato sull’essere riuscito a portare al voto un numero enorme di cittadini che, per ragioni ideologiche, prima si erano rifugiati nel non-voto. In gran parte neri. John McCain perse, ma, al netto del surplus vincente di voti “personali” di Obama, il Partito Repubblicano perse in assoluto un numero alquanto limitato di voti.
Nel 2010, le elezioni di “medio termine” videro trionfare al Congresso i candidati politici Repubblicani più e meglio legati a quel movimento dei “Tea Party” la cui sfida antistatalista ha saputo coniugare brillantemente rivolta antifiscale e difesa dei “princìpi non negoziabili”.
Nel 2012, l’onda lunga dell’effetto “Tea Party” provocò una decisa svolta conservatrice all’interno dei Repubblicani quale non si vedeva dal 1964, in occasione della campagna elettorale di Barry M. Goldwater (1909-1998), allorché il Partito Repubblicano “cominciò a essere di destra” giacché prima non lo era, producendo a lungo termine l’elezione alla casa Bianca di Ronald W. Reagan (1911-2004) nel 1980 e nel 1984. Nel 2012 i Repubblicani fallirono la conquista della Casa Bianca con Romney per non avere saputo amministrare e organizzare sagacemente questo “strappo positivo” dentro il partito, ma – più passa il tempo e più è evidente – si trattò di un “incidente di percorso”, certo un po’ deprimente ma non tombale; più un “malore di crescita” che una débâcle. Obama, infatti, ci rimise per intero il suo famoso, storico vantaggio elettorale “personale” messo in campo quattro anni prima; dovette rapidamente cambiare elettorato (dai neri ai latinos, mediante la promessa di una sgangherata riforma della legge sull’immigrazione, mai mantenuta); si trovò costretto, un po’ per forza e un po’ per amore, a radicalizzare i toni della sua proposta politica; e, nonostante le indubbie vittorie ottenute sul campo, il percorso delle sue politiche (per esempio eminente, la riforma sanitaria) è stato assai più accidentato del previsto.
L’“era Obama” non è certo finita, ma il 2014 incombe. Obama è stato ed è un nemico giurato e palese tanto dei “princìpi non negoziabili” quanto della politica legittimamente negoziabile che da essi tra spunto, ispirazioni e inquadramento. Forse è stato il presidente più radicale di tutta la storia statunitense. Per battere lui e la sua eredità i Repubblicani debbono pubblicamente incarnare il contrario. La strada da loro percorsa fino al 2012 elettorale compreso ha compiuto passi decisivi lungo questo cammino; oggi essi hanno l’occasione storica per raggiungere la meta. Che – come sempre – non potrà non passare dal patto chiaro e palese “di scambio” da stringere con quel mondo conservatore che è sempre più vasto, profondo ed esigente del partito; e che – come sempre di più – non potrà rimandare i conti con la questione demografica, in un Paese dove i cattolici crescono (di numero e di autorevolezza) ma i bianchi diminuiscono.