Nella sua visita pastorale a Brescia di domenica 8 novembre, nella terra natale del servo di Dio papa Paolo VI (1963-1978), Benedetto XVI ha toccato diversi temi, più o meno tutti inerenti alla figura di papa Montini. Però le parole “pensiero forte”, riferite rispetto al metodo educativo di papa Montini, hanno attirato in modo particolare la mia attenzione. Perché di Paolo VI non si ha comunemente questa immagine, di educatore attento ad aiutare i giovani «ad avere un “pensiero forte” capace di un “agire forte”», come ha detto papa Ratzinger domenica, per evitare «il pericolo, che talora si corre, di anteporre l’azione al pensiero e di fare dell’esperienza la sorgente della verità».
Infatti di questo Pontefice si ha comunemente un’immagine di debolezza, di Papa incerto, sballottato fra progressisti e tradizionalisti, senza una linea precisa e decisa. Invece Benedetto XVI lo presenta diversamente, in questo caso trattando del suo rapporto con i giovani, di quella che già allora era come oggi un’«emergenza educativa».
“Pensiero forte” rimanda al suo contrario, il “pensiero debole” che domina la cultura contemporanea, orfana delle ideologie dopo il 1989 e caduta in preda all’ultima ideologia, il relativismo, che appunto si presenta come la massima debolezza, perché la verità non esiste, non vale la pena ricercarla, tutte le opinioni sono ragionevoli anche se contraddittorie e ciò che conta è assecondare il desiderio del soggetto.
Montini – che era stato assistente degli universitari cattolici, poi aveva lavorato in segreteria di Stato e quindi era diventato arcivescovo di Milano, prima dell’elezione al pontificato – non la pensava come la cultura moderna, di cui anzi metterà sempre in luce gli aspetti negativi, come ricorda Benedetto XVI, e in particolare criticò «il soggettivismo, l’individualismo e l’affermazione illimitata del soggetto».
Ma allora dove nacquero i tanti equivoci che resero Paolo VI inviso a tanti cattolici amanti della tradizione, che lo accusavano di cedere alle idee moderne, ma anche osteggiato da tanti progressisti, che gli imputavano di avere spento lo “spirito del Concilio”? Probabilmente l’equivoco nasce dall’incomprensione. Paolo VI voleva il cambiamento, o meglio quello che allora si chiamava “aggiornamento”, ma senza rinunciare al “pensiero forte” della Chiesa, cioè all’ortodossia, a tutto il cristianesimo, anche quello non “politicamente corretto”: “cambiamento” significava semplicemente adattare il modo di porgere il Vangelo e l’insegnamento della Chiesa a un uomo che era cambiato in seguito ai profondi mutamenti culturale degli ultimi due secoli, senza rinnegare e tradire nulla.
Tornando alle parole di Benedetto XVI, il suo predecessore voleva formare giovani che non nascondessero la loro identità e la conoscessero bene, non in modo superficiale, e contemporaneamente fossero capaci di «entrare in rapporto con la modernità», un rapporto difficile ma necessario se si vuole veramente essere degli apostoli. Il dialogo, indispensabile per comunicare con gli altri uomini, non era uno strumento per perdere l’identità; al contrario papa Montini ebbe a dire una volta che «il mimetismo dottrinale e morale non è certo conforme allo spirito del Vangelo» e dunque il pluralismo culturale non deve fare «mai perdere di vista al cristiano il suo dovere di servire la verità nella carità, di seguire quella verità di Cristo che, sola, dà la vera libertà».
Un Paolo VI “altro” rispetto a tanti luoghi comuni, dunque, quello presentato da Benedetto XVI. Un Papa innamorato di Cristo e della Vergine Maria (che volle Madre della Chiesa durante il Concilio), deciso a servire la Chiesa e ansioso di comunicarne l’insegnamento non agli uomini in astratto, ma ai contemporanei, agli uomini concreti del suo tempo, e per questo deciso ad adeguare il linguaggio ecclesiale al raggiungimento di questo fine. Un Papa che non tacque neppure nel 1968, di fronte alla sfida della contestazione, quando si rivolse ai giovani invitandoli a ribellarsi al “gregarismo” e al “politicamente corretto”: «Voi, giovani d’oggi, siete talora ammaliati da un conformismo, che può diventare abituale, un conformismo che piega inconsciamente la vostra libertà al dominio automatico di correnti esterne di pensiero, di opinione, di sentimento, di azione, di moda: e poi, così presi da un gregarismo che vi dà l’impressione d’essere forti, diventate qualche volta ribelli in gruppo, in massa, senza spesso sapere perché». Se invece scoprirete la verità, troverete con essa anche la libertà e vi incamminerete lungo la strada della felicità eterna: «se voi acquistate coscienza di Cristo, e a Lui aderite… avviene che diventate interiormente liberi… saprete perché e per chi vivere… E nello stesso tempo, cosa meravigliosa, sentirete nascere in voi la scienza dell’amicizia, della socialità, dell’amore. Non sarete degli isolati».
Marco Invernizzi
Pubblicato sul sito del Timone il 9 novembre 2009