1. Premessa
La vita non ha mai nulla di casuale: sono convinto che le coincidenze non esistano e che da qualche parte, talvolta bene in vista talaltra misteriosamente nascosto in modo impenetrabile, ogni accadimento abbia in sé il proprio senso e risponda ad un disegno assai più grande di noi. Se, dunque, le coincidenze semplicemente non esistono, anche ciò che ha riguardato Enzo, tutto, fin nei più apparentemente insignificanti dettagli, risponde ad una logica in grado di conferire un significato.
Alla luce di questa premessa, risulta facile capire perché un innamorato di Maria come Enzo sia salito al cielo nel giorno della Solennità liturgica di Maria Madre di Dio nei pressi di un Santuario mariano a lui particolarmente caro e perché l’ombra della morte sia giunta inattesa subito dopo la conclusione di un entusiasmante incontro da lui organizzato sul tema della famiglia, uno dei cavalli di battaglia che hanno caratterizzato il lungo impegno spirituale, culturale, sociale e politico di Enzo.
E ancora, se nulla è frutto del puro caso ovvero di un destino capriccioso ed imprevedibile, talvolta crudele, possiamo certamente affermare che nulla nella vita di Enzo fu affidato all’imprevedibilità di forze estranee, quasi ad un gioco dei dadi. Anzi, dotato di una non comune forza di volontà e capacità di governare responsabilmente le proprie scelte, Enzo aveva capito molto presto che nessuna azione, di qualunque genere, può essere fruttuosa se non è scrupolosamente pensata, organizzata e posta in atto e, meglio, che nessuna azione può prescindere da una capacità di discernimento che va oltre l’azione in sé stessa e affonda le proprie radici nella dimensione della vita spirituale e quindi nella capacità di valutarne anzitutto le implicazioni di ordine morale e soprannaturale.
Felice interprete della espressione “contemplativo in azione”, Enzo ha costruito la casa della sua vita sulla roccia di una spiritualità profonda, che è cresciuta in modo percepibile con il trascorrere del tempo.
Ho avuto la grazia, giacché come ho detto non posso parlare di fortuna o di destino, di frequentare Enzo con rapporto di sincera amicizia per circa 30 anni e ci è capitato diverse volte di andare insieme al cinema. Probabilmente avremmo visto insieme, se la sua avventura terrena non si fosse bruscamente interrotta all’alba del 2008, anche il film che ha vinto la Palma d’Oro nel 2011, intitolato “The Tree of Life” e credo che a lui sarebbe piaciuto come è piaciuto a me. Soprattutto avrebbe molto apprezzato la frase con cui inizia questo film. Preceduta da una scritta che riproduce la frase del libro di Giobbe “Dov’eri tu quando ponevo le fondamenta della terra?”, la voce fuori campo di una delle protagoniste dice così:
“Ci sono due vie per affrontare la vita: la via della natura e la via della grazia. Tu devi scegliere quale delle due seguire. La grazia non mira a compiacere sé stessa, accetta di essere disprezzata, dimenticata, sgradita; accetta insulti e oltraggi. La natura vuole solo compiacere se stessa e spinge gli altri a compiacerla. Le piace dominare, le piace fare a modo suo, trova ragioni di infelicità quando tutto il mondo risplende intorno a lei, e l’amore sorride in ogni cosa. Chi ama la via della grazia non ha ragione di temere”.
A lui sarebbe piaciuta, come è piaciuta a me, anche perché questa duplice via che è posta davanti alla scelta di ciascuno di noi ricorda molto i “Due stendardi” che S. Ignazio di Loyola fa meditare nei suoi Esercizi Spirituali: lo stendardo di Satana e quello di Nostro Signore.
Enzo era un innamorato degli Esercizi ignaziani e aveva sempre chiaro che davanti ad ogni scelta occorre fare i conti con le due eterne contrapposizioni, variamente raffigurate: gli eserciti di S. Ignazio, la Compagnia dell’Anello e le forze di Sauron, la via della grazia e la via della natura ferita dal peccato originale.
Anche e soprattutto in questo Enzo mi è stato di esempio e di sprone e forse il mio tentativo, molto meno riuscito, di alimentarmi alle stesse fonti e di condividere lo stesso atteggiamento di fondo, hanno reso possibile la nostra amicizia, vincendo la diversità di carattere, di indole, di sensibilità e talvolta di gusti che ci contraddistingueva.
Enzo era un uomo dotato di grande capacità organizzativa, visione d’insieme, chiarezza di obiettivi, infaticabili finalità apostoliche abbinate a senso dell’umorismo, autoironia, sano desiderio di divertimento. Era certamente uomo radicalmente ed integralmente cattolico, capace di trasformare la prima vacanza estiva che trascorse nella mia casa all’Isola d’Elba in un ciclo di conferenze sulla dottrina sociale della Chiesa che ci vedeva entrambi tra i relatori, svoltosi nella chiesa principale della città di Portoferraio alla presenza del Vescovo diocesano e preceduto da un lungo giro dei più sperduti paesini dell’isola per diffondere le locandine e gli inviti da lui fatti stampare a Milano prima di arrivare.
Non ho mai smaltito del tutto lo shock subito per questa ruvida violazione di quello che consideravo (e ancora considero) il mio sacrosanto diritto al riposo estivo, ma conservo al tempo stesso di quella estate un ricordo di profonda edificazione ed esemplarità.
Per Enzo anche le vacanze erano occasione di evangelizzazione. Se apostolato culturale vuol dire che la fede deve diventare cultura, anche la vacanza è un’occasione per contribuire a diffondere la cultura cristiana, a diffondere una mentalità conforme al Vangelo.
Cultura, infatti, non significa erudizione da bibliofilo, ma ha un significato infinitamente più ampio:
Come insegna Giovanni Paolo II «la cultura non riguarda solo gli uomini di scienza. Essa è direi quasi la dimora abituale dell’uomo, ciò che caratterizza tutto il suo comportamento ed il suo modo di vivere, persino di abitare e di vestirsi, ciò ch’egli trova bello, il suo modo di concepire la vita e la morte, l’amore, la famiglia e l’impegno, la natura, la sua stessa esistenza, la vita associata degli uomini, nonché Dio» (Discorso alla comunità universitaria di Lovanio, 20 maggio 1985).
Se tutto questo è “cultura”, ben si comprende la necessità di un’opera instancabile capace di evangelizzare tutti gli ambiti del vivere umano, senza eccezione alcuna.
2. Una società sotto attacco
Questa azione di riconquista degli uomini e delle società, la nuova evangelizzazione capace di trasfondere la fede in una cultura viva e vissuta, è un’esigenza ineludibile ripetutamente sottolineata dal Magistero pontificio e fatta propria da Enzo con la consapevolezza di chi non solo si pone in atteggiamento di ascolto delle indicazioni magisteriali, ma ha anche studiato in profondità le malattie morali ed ideologiche che affliggono il tempo presente e impongono adeguate terapie.
Enzo muove i primi passi nel campo dell’impegno culturale e politico alla fine degli anni 70, in una fase delicata caratterizzata dall’apparente trionfo planetario dell’ideologia marxista, in realtà oramai prossima alla clamorosa implosione di 10 dopo, e al tempo stesso dall’affermarsi sempre più diffuso della mentalità relativista e nichilista che prepara il terreno al pensiero debole destinato a prendere il posto delle ideologie.
In ogni caso, indipendentemente da quale tra la terza e la quarta fase del processo Rivoluzionario stesse prevalendo, era evidente che quegli assetti culturali, sociali e politici non fossero compatibili con una visione naturale e cristiana dell’uomo. Questo vale per tutti gli ambiti della vita personale ed associata, ma in particolare per gli ambiti della famiglia e dell’educazione, ai quali Enzo dedicherà un impegno crescente ed incisivo.
I regimi comunisti si erano già contraddistinti per una sistematica e feroce opera di smantellamento della compagine sociale naturale, a partire dalla persecuzione anti religiosa e quindi dall’attacco alla famiglia.
La caduta del Muro, ed il conseguente passaggio dalle ideologie al pensiero debole, non ha rappresentato un mutamento negli obiettivi della Rivoluzione: ne ha, semplicemente, ridisegnato le strategie, le modalità di azione. Non è più il tempo dei campi di lavoro, della polizia politica, della repressione militare, ma la famiglia naturale e le relazioni familiari continuano a rappresentare un campo di azione privilegiato, una sorta di “prima linea” sul fronte della definitiva destabilizzazione di un ordine sociale ancora troppo legato a una concezione dell’uomo che la Rivoluzione non può tollerare.
Il socialismo reale ed i suoi orrori sono stati adesso superati da un modello di società assai meno brutale nell’aspetto e nei metodi, ma ugualmente efferato negli obiettivi. Uno scrittore spagnolo neo convertito, Juan Manuel de Prada, descrive la società attuale come l’esito di una nuova tirrania prodotta da una mentalità diffusa, il relativismo elevato al rango di nuova ideologia del politicamente corretto in cui ogni capriccio è elevato a diritto da rivendicare, che lui definisce come “matrice progressista” cioè come modello, archetipo del mondo nuovo post ideologico.
Così scrive de Prada:
«La Matrice progressista è diventata una specie di fede messianica; ha instaurato un nuovo ordine, ha imposto paradigmi culturali inattaccabili, ha stabilito una nuova antropologia che, promettendo all’uomo la liberazione finale, gli riserva solo il futuro suicidio. E contro questo nuovo ordine, si erge solo l’ordine religioso, che restituisce all’uomo la sua vera natura e gli propone una visione corretta del mondo […]. Una visione che il potere combatte con grande sforzo, essendo l’ordine religioso l’unica fortezza che gli resta da espugnare prima che il suo trionfo sia completo. […]
Oggi in Occidente si sta ingaggiando questo grande scontro, che la nuova tirannia maschera molto abilmente da “battaglia ideologica”. […]
La battaglia che oggi s’ingaggia non è ideologica, ma antropologica, poiché tende a restituire agli uomini la loro autentica natura, permettendo loro di uscire dalla confusione babelica fomentata dall’ideologia, fino a raggiungere il cammino che conduce ai principi originali».
Come già Enzo ha osservato nei suoi studi sul Sessantotto, il fronte di combattimento è essenzialmente quello culturale e spirituale, è la battaglia antropologica di cui scrive Manuel de Prada e di cui, implicitamente, ma con una drammaticità esemplare, dà conto la lettera scritta da una donna di Grosseto figlia di “sessantottini” e pubblicata sul Corriere della Sera nel maggio 2008, nell’ambito del quarantennale del 68 italiano.
«[…] I miei genitori stavano a Grosseto. Mia madre, insegnante, si è messa in testa di cambiare il mondo degli altri (non il suo). Questo ha significato per me diventare la figlia dei miei nonni, (vivevo e dormivo a casa loro), ed essere un peso per mia madre. Poi è nato mio fratello, i miei genitori si sono separati, mio padre è andato via, e da allora mia madre mi ha rovesciato addosso ogni responsabilità, costringendomi a tirar su mio fratello, con i miei nonni che hanno sempre cercato di non farmi sentire uno zerbino, come invece mi sentivo. Avevo 11 anni, mio fratello 6.
La rivoluzione che sono riusciti a fare i miei genitori è stata questa. Non ho più da tempo alcun rapporto con mia madre, che peraltro non sente la mia mancanza, dal momento che ha deciso che i miei problemi sono inventati. Per me è molto difficile dire queste cose, così come è difficile accettare questo cavolo di ’68 come un messia […]
Insomma trovo un controsenso quegli ideali meravigliosi, quelle canzoni, e tutto il resto, paragonati all’irresponsabilità di chi li predicava e alla loro incapacità di tradurli nella vita reale. E’ molto difficile vedere quella generazione come “intoccabile”, di cui non si può dir male, e sentirsi dare, oltretutto, degli imbranati, perché loro a 20 anni facevano la rivoluzione».
Se questa lettera è espressione emblematica dei profondi guasti umani e sociali prodotti dalla Rivoluzione culturale del 68, si può facilmente comprendere che da questo habitat culturale si sia alimentato anche il regista americano Tim Burton il quale nell’aprile scorso, presentando la sua ultima fatica cinematografica, ha affermato:
«Anche qui, come in molti miei film, il “mostro” è la famiglia, nido chiuso, ricattatorio, falsamente protettivo. […] Ne esce il ritratto di una famiglia sbagliata, come lo sono tutte. Non esiste la famiglia ideale».
La famiglia fonte di tutti i mali di Tim Burton è probabilmente una forzatura provocatoria, ma rende perfettamente l’idea del giro mentale che contraddistingue il pensiero dominante e che già Enzo, nel suo lucido e profondo discorso tenuto la mattina del Capodanno 2008 a chiusura dell’incontro dedicato alla famiglia poche ore prima di morire, aveva messo a fuoco parlando della fine della famiglia. Riprendendo l’analisi dello statistico Roberto Volpi, in quella circostanza Enzo si soffermò sulle cause di questa crisi, che definì culturale e non economica, individuandone i cardini:
«….a) I giovani non si sposano per scelta, perché il matrimonio e la famiglia non rappresentano un ideale di vita, perché è andata perduta la consapevolezza di vivere per qualcosa e qualcuno che vada oltre l’esistenza terrena, perché preferiscono stare nella famiglia di origine il più possibile, avendo in questa condizione molti vantaggi e nessun costo. Ma in questa situazione non costruiscono nulla.
b) I figli non nascono perché sono giudicati inessenziali nella vita di coppia. Questa è una grande rivoluzione, sostiene Volpi, che ha cambiato completamente il quadro culturale negli ultimi trent’anni. La coppia ha sempre più altre priorità rispetto al mettere al mondo dei figli, meno costose, meno drammatiche, meno impegnative.
c) La maternità è stata occupata dalla medicina. L’autore porta il caso della regione Toscana e descrive come la quasi totalità dei parti avvenuti nel corso di un anno (2002) sono accompagnati da un numero incredibile di visite mediche, specialistiche e non, da interventi della medicina in prossimità e post-partum, tanto da far diventare il figlio un’«impresa» così faticosa da scoraggiarne una seconda. Questo spiega anche l’alto numero di figli unici.»
Nello stesso discorso, Enzo mise in guardia contro le derive zapateriste in tema di assetti sociali e di famiglia:
«Questa è l’idea di Zapatero: liberarsi della religione non con la violenza, come tentarono di fare i repubblicani e gli anarchici nella Spagna del 1936, ma svuotarla di significato pubblico, sostituirla con una nuova morale di Stato: quella del desiderio individuale che diventa diritto, della sostituzione della realtà dell’essere umano, uomo e donna, con il capriccio identitario, la famiglia senza padre o senza madre».
Più avanti, Enzo giunse al cuore del problema e facendo riferimento ad Umberto Veronesi, disse così:
«Ad un recente convegno del progetto Italia di Telecom, ha svelato bene la posta in gioco, i veri schieramenti culturali in campo: il suo, la sinistra illuminata dai poteri forti, combatte, ha detto, ”per sostituire la triade Dio-patria-famiglia con una triade finalmente non rivelata, libertà -anche di morire, ha detto abbassando la voce – tolleranza e solidarietà”.
Strane queste libertà: di far morire, di darsi la morte, di violentare la sessualità unendo generi uguali e chiamandoli famiglia; strana questa tolleranza del niente indifferente, così comprensiva verso le culture più violente e così insofferente verso il Cristianesimo vivo dei vescovi e del popolo che osano partecipare alle battaglie di civiltà; strana questa solidarietà del nulla, assomiglia tanto alla fraternitè della rivoluzione francese, con i giacobini che accompagnano i francesi alla ghigliottina…»
3. Necessità di un pensiero forte
Questo è il quadro drammatico che Enzo ritenne indispensabile contrastare con la piena consapevolezza che l’opera di riconquista di una dimensione naturale e cristiana dell’uomo, della famiglia, della società fosse tanto difficile quanto doverosa, posto che la nobiltà della causa non dipende certo dalla maggiore o minore facilità di raggiungere l’obiettivo sperato.
Dunque, la società frammentata e disarticolata che è stata efficacemente definita dalle analisi sociologiche come coriandolare e, successivamente, “liquida”, impone una reazione consapevole e organizzata capace di rianimare e proporre un “pensiero forte”, un corpo di valori identitari in grado di fungere da punto di riferimento.
Sul piano operativo, Enzo poggia questa reazione su alcuni capisaldi ai quali dedica preghiera, intelligenza, passione ed energia: la creazione di ambienti e la dimensione dell’amicizia, la sfida educativa, la riproposizione delle verità naturali in tema di famiglia e di difesa della vita umana innocente.
A) Creazione di Ambienti ed Amicizia
Chiunque abbia avuto l’occasione di frequentare Enzo, anche solo occasionalmente, è rimasto colpito dall’attenzione che lui mostrava per le persone che incontrava, la capacità di ascolto, la facilità di entrare in empatia con gli altri, la disponibilità ad un consiglio ed a farsi carico dei problemi che gli venivano presentati. Per Enzo, la dimensione amicale è sempre stata la più importante poiché costituisce la risposta concreta alle istanze della carità, cioè dell’amore cristiano, e al tempo stesso permette di determinare una relazione autentica e profonda con gli altri, premessa indispensabile per qualunque forma di testimonianza e di trasmissione della fede. L’amicizia si pone come il vero antidoto ai veleni rivoluzionari: “Guai ai soli”, ammonisce la Scrittura, “guai ai soli” a maggior ragione in una società sfilacciata e incapace di legami veri, sinceri e stabili.
Lewis esprime molto bene questo concetto quando scrive:
«L’amicizia non è una ricompensa per il buon gusto e il discernimento che abbiamo dimostrato di possedere trovandoci vicendevolmente. Essa è lo strumento attraverso il quale Dio rivela a ciascuno le bellezze degli altri […] Queste, come tutte le bellezze, derivano da Lui e quando si stabilisce un’autentica amicizia esse vengono da Lui accresciute per questo tramite, cosicché l’amicizia diventa il Suo strumento per creare e anche per rivelare».
Plinio Correa de Oliveira, al cui pensiero Enzo si è ispirato in modo sistematico e convinto, scrive:
«Quando in un determinato gruppo umano, per esempio in una famiglia o in una società, la vita sociale delle anime è regolare e intensa, si costituisce in esso come un’anima collettiva, ossia un insieme di convinzioni, alcune delle quali considerate particolarmente importanti, di conseguenza una mentalità collettiva, uno stato di spirito comune ed esercitante un’influenza particolarmente forte su tutti i membri».
E ancora:
«[…] la funzione contemplativa dell’uomo su questa terra […] di norma si esercita con il sostegno dell’ambiente, della cultura, dello stile e della civiltà».
Tutto questo a Enzo era divenuto straordinariamente chiaro e non perdeva occasione per darne dimostrazione con i molti amici che si rivolgevano a lui in momenti di dubbio o difficoltà di ogni tipo, ma anche con gli sconosciuti nei quali si imbatteva.
Un amico ha scritto:
Un piccolo ricordo, risalente a qualche anno fa, che mostra come per Enzo il Cristianesimo fosse realmente vita vissuta fatta di amore per il prossimo e non, come troppo spesso finisce per essere anche per noi, ideologia: una sera uscivamo dalla Via Crucis quaresimale che allora Alleanza Cattolica organizzava in Santa Maria della Vittoria. Il quartiere, nelle ore serali, non è certo dei migliori e si popola di una strana inquietante fauna umana. Enzo raccolse dal marciapiede o da una panchina un ragazzo drogato che stava male (penso che la maggior parte di noi, come era il mio caso, non se ne sarebbe dato cura, anzi, avrebbe provato disgusto e disprezzo), cercò di rianimarlo, ce lo presentò come un amico e fece in modo che qualcuno lo accompagnasse a casa. E’ un episodio che mi colpì molto allora e che mi è rimasto impresso in modo indelebile, tanto che spesso mi torna alla memoria.
In un testo del 1994 rivolto ai militanti della Croce di San Sebastiano, Enzo scrive:
«mi sembra necessario innanzitutto vivere personalmente e comunitariamente la straordinaria ricchezza di mezzi – spirituali ed intellettuali – a nostra disposizione. […] l’aspetto della vita comunitaria non è affatto secondario, né dal punto di vista teologico, perché la comunione è un aspetto essenziale della vita cristiana, né dal punto di vista dell’azione, perché nel mondo contemporaneo urge anche la risposta concreta alla tendenza all’omologazione e all’isolamento (l’omologazione rivoluzionaria dei modi di vivere è infatti funzionale all’assenza di rapporti vitali, cioè veri, tra le persone)».
In un documento organizzativo da lui scritto nel 1998 allo scopo di ripensare alcune modalità della vita associativa, Enzo rafforza il medesimo concetto:
«Le caratteristiche della vita moderna nelle grandi metropoli premiano le iniziative nelle quali è possibile socializzare all’interno di micro-comunità caratterizzate da qualche affinità. Da ciò deriva che le iniziative cui dare corso, ferma restando la specificità della vocazione associativa, dovrebbero avere uno stile favorente la socializzazione, non impegnativo, sereno, aperto ai familiari e una forma che comprenda numerosi momenti liberi e di animazione».
B) La Famiglia
In queste idee troviamo già il senso delle molte iniziative che Enzo ha ideato e realizzato per il coinvolgimento diretto delle persone, delle famiglie, con l’obiettivo di creare un ambiente basato sull’amicizia ed in grado di veicolare una cultura.
Nel suo discorso di quell’indimenticabile capodanno del 2008, Enzo volle insistere con forza sulla necessità di una battaglia culturale finalizzata a recuperare l’identità politica della famiglia, il suo ruolo pubblico, i suoi diritti correlati alla sua struttura naturale. In questo quadro enfatizzava, giustamente, due momenti chiave della nostra storia recente: il mancato raggiungimento del quorum al referendum abrogativo della Legge 40 sulla fecondazione assistita ed il Family Day del 2007.
A proposito di quest’ultimo evento, a cui dette come al solito un significativo contributo sul piano organizzativo, Enzo ha svolto considerazioni che meritano di essere riproposte a partire dal recupero di un modello culturale alternativo a quello nichilista e relativista. Si tratta di un modello culturale laico che, nelle parole di Enzo
« ha la sua forza nel recupero dell’identità europea, guarda ad Atene e a Roma, poggia sul Sinai e sul Golgota: in Italia ha conosciuto una alleanza trainata con coraggio dal Card. Ruini, un’alleanza non clericale, ma di sana laicità, tra cattolici, laici non laicisti e sentimento profondo del popolo italiano. Ha vissuto con il Family Day la consapevolezza che c’è un popolo italiano che non si arrende, che è postmoderno, che è minoritario ma non disposto a farsi calpestare. E’ questo popolo che dobbiamo incontrare ogni giorno».
Enzo lavora con l’idea di creare una modalità di apostolato in AC che coinvolgesse le famiglie e i bambini, aprendo nuovi orizzonti all’apostolato spirituale e culturale che l’Associazione aveva sempre svolto attraverso la modalità della formazione del militante. Come ha scritto Marco Invernizzi nella sua storia di AC, l’Associazione nasce come gruppo di giovani impegnati nella battaglia delle idee, giovani che poi diventano uomini e donne, spesso padri e madri di numerosi bambini, facendo sorgere nuove esigenze e nuove opportunità di amicizia, incontro, apostolato.
Da questi incontri nascono rapporti profondi con persone esterne all’Associazione e si formano nuovi gruppi di AC, come accade con la Croce di Genova. Al tempo stesso, i bambini cominciano a conoscere la realtà associativa e le sue proposte, sviluppate soprattutto attraverso i campeggi estivi, per poi passare agli incontri di Capodanno e di Pasqua per i liceali.
C) I Giovani e l’Educazione
Accanto ai ritiri di primavera per famiglie e agli straordinari incontri di Capodanno da lui meticolosamente organizzati senza risparmio di energie fisiche e mentali, una delle priorità irrinunciabili per Enzo sono sempre stati i ragazzi, i primi e più esposti bersagli della deriva relativista e della perdita di valori.
Per poter seguire al meglio il nascente e già numeroso gruppo di liceali che volle riunire a casa sua per incontri informali di formazione e di amicizia, decise addirittura di ridurre il suo impegno in altri ambiti associativi, fino a chiedere di rinunciare al ruolo di Capo Croce.
Nacque così la Comunità di Destino, come la volle chiamare con esplicito riferimento al concetto espresso da Gustave Thibon a proposito delle realtà sociali aggregate attorno a valori fondanti e finalità condivise: un gruppo di ragazzi destinato a divenire sempre più numeroso ai quali Enzo dedicava tempo, intelligenza, attenzione, amicizia.
Raccontando la giovinezza di Karol Wojtyla, il suo biografo George Weigel descrive gli incontri di formazione organizzati presso la propria abitazione da un laico, Jan Tyranowski, (una sorta di Comunità di Destino ante litteram) e osserva che questo laico, definito il sarto mistico, «riusciva in qualche modo a comunicare che i temi dottrinali di cui discutevano non erano per lui astrazioni, bensì oggetto di esperienza quotidiana. E questa era una qualità potente, quasi irresistibile».
Una ragazza di Bergamo della Comunità di Destino ha scritto:
«Non so come spiegarlo, ma dopo quel “vuoi venire alla comunità di destino?” io sono cambiata. Dopo la prima superiore mi sono avvicinata di più alla fede: pregare e imparare avevano un senso. Enzo non mi ha fatto un miracolo, ma aprendomi la porta mi ha dato un’altra visione della realtà, dell’amore verso il prossimo, mi ha reso evidente che nella vita ci sono altri valori rispetto a quelli che la cultura di oggi ci offre»
Questo è invece quello che scrive un ragazzo di Milano:
«La Comunità di Destino era nata con uno scopo ben preciso: ricordarci che non siamo soli. Prima ancora dello scopo formativo, il bisogno di creare una comunità era apparso ben chiaro nella mente di Enzo. Se infatti tutti gli uomini hanno bisogno di un ambiente buono che li aiuti a santificarsi, “Guai ai soli!”, per dei giovani liceali immersi nell’ambiente frenetico milanese questo bisogno era una necessità impellente e fondamentale.
Ed eccoci dunque riuniti, ogni quindici giorni, a casa di Enzo, per recitare insieme il S. Rosario, mangiare una pizza con una birra e poi ascoltarlo parlare. Credo che più della metà di noi andasse lì più che altro per la pizza e la birra, e per poter chiacchierare un po’ con i propri amici. Ma perché era bello quel momento conviviale? Era bello perché guardandoti attorno vedevi persone che vivevano i tuoi stessi problemi e le tue stesse difficoltà nel compenetrare la propria Fede nella vita quotidiana.
Quei venerdì diventavano allora una ricarica, una luce, un costante pensiero che ti sorreggeva quando in classe il professore ti faceva cadere le braccia con discorsi strani o i tuoi compagni ti prendevano in giro per il modo in cui perdevi tempo la domenica mattina invece di dormire.
Se poi a tutto questo si aggiungevano anche le parole che Enzo ci rivolgeva, ecco un altro mondo che si apre! Diceva cose importanti, ma dal modo in cui le diceva non traspariva solo l’importanza delle cose in sé: traspariva l’importanza che aveva per lui il fatto che quelle cose diventassero importanti per noi. E per un ragazzo, quanto è fondamentale sentirsi importante per qualcuno! Si sgolava, teneramente, per farci capire la bellezza di essere quello che eravamo, per trasmetterci la fierezza del dirsi Cattolici».
Dalla Comunità di Destino è poi nato anche un vero e proprio giornale, Cuore d’Europa, voluto e ideato da Enzo ed interamente scritto dai ragazzi.
L’emergenza educativa ha fatto sì che Enzo diventasse anche ideatore, fondatore e quindi presidente di una scuola materna parrocchiale, intitolata a San Gioachimo. Enzo si butta in questa ennesima avventura innanzitutto perché desideroso di avere una buona struttura in cui mandare i propri figli, ma principalmente per la consapevolezza del fatto che una scuola materna ben organizzata e fondata su valori autentici rappresenta un piccolo mattone dell’edificio della riconquista culturale a cui aveva votato l’esistenza.
Ricordando questa avventura, Enzo stesso cita S. Agostino: “Initium ut esse, creatus est homo”, l’uomo è creato affinché ci sia un inizio, e commenta: «per ogni uomo che nasce c’è la possibilità che la storia abbia un inizio e un compimento, attraverso una cultura che in senso classico è coltivazione della realtà interiore, secondo Cicerone è “cultus animi”, coltivazione dell’anima».
E poi ancora:
«Svelare questo destino a se stessi attraverso l’opera educativa dei genitori, di cui la scuola, e quella dell’infanzia in particolare, è un ausilio e un complemento, è un’autentica operazione di libertà, perché solo quest’azione culturale, questa coltivazione, permette al bimbo di far crescere in sé la capacità di scegliere il bene e di rifiutare il male, di rivestirsi della verità dell’essere attraverso lo sviluppo delle virtù e di formare una coscienza autenticamente libera e non declinante al capriccio, cioè alla falsificazione egoistica del desiderio di compimento del bene per la felicità. […]
Così, l’azione educativa spalanca la conoscenza dell’uomo concreto, ed è l’opposto dell’hommeilluministico, astratto, che nessuno ha mai incontrato, e che la Rivoluzione francese, inaugurando i totalitarismi moderni, si incaricherà di affidare allo Stato perché lo faccia diventare modello della volontà generale, sopprimendo fisicamente tutti gli uomini che non sono d’accordo con l’ideologia dell’uomo nuovo e del mondo perfetto che verrà».
4. Conclusioni: la santità dell’ordinario
Spero di essere riuscito a trasmettere un poco delle molte cose buone che Enzo ha testimoniato e ci ha trasmesso come preziosa eredità da proseguire. Una vita attenta al “reale”, contro ogni tentazione utopistica rivoluzionaria, fondata sulla roccia del buon senso e del diritto naturale, alimentata dalla Grazia sacramentale e dalla devozione mariana. Non aveva un carattere facile, ma di certo ha ricevuto tanti talenti ai quali ha saputo corrispondere con fedele perseveranza.
Non è evidentemente mia intenzione quella di procedere ad una irrituale canonizzazione e quindi richiamo i decreti di Urbano VIII dichiarando che non intendo, in alcun modo, prevenire il giudizio della Santa Chiesa Cattolica e Apostolica, se mai vi sarà, sulla santità di Enzo. Resto però profondamente convinto che ci troviamo di fronte ad un uomo che ha posto la santità quale traguardo dell’esistenza, cioè ha deciso di affrontare l’avventura della vita in tutti i suoi aspetti (familiare, professionale, associativo) avendo il desiderio di guardare in alto, di aspirare ai beni più grandi, secondo l’insegnamento di San Paolo.
La chiamata universale alla santità, affermata dal Concilio Vaticano II e ribadita con forza dalla Esortazione apostolica Christifideles laici, a lui molto cara, è sempre stata una prospettiva concreta e reale, una mèta ambita, un desiderio, non un’utopia.
Credo che la vita di Enzo sia una conferma di quanto scrive Nicolas Gómez Dávila: «naturale e soprannaturale non sono piani sovrapposti ma fili intrecciati».
E in questa prospettiva, Enzo avrebbe molto apprezzato, e avrebbe proposto innanzitutto ai suoi ragazzi della Comunità di Destino, il discorso pronunciato da Benedetto XVI il 17 settembre 2010 agli studenti cattolici del Regno Unito:
«Ho la speranza che fra voi che oggi siete qui ad ascoltarmi vi siano alcuni dei futuri santi del ventunesimo secolo. La cosa che Dio desidera maggiormente per ciascuno di voi è che diventiate santi. Egli vi ama molto più di quanto voi possiate immaginare e desidera per voi il massimo. E la cosa migliore di tutte per voi è di gran lunga il crescere in santità. Forse alcuni di voi non ci hanno mai pensato prima d’ora. Forse alcuni pensano che essere santi non sia per loro. Lasciatemi spiegare cosa intendo dire. Quando si è giovani, si è soliti pensare a persone che stimiamo e ammiriamo, persone alle quali vorremmo assomigliare. Potrebbe trattarsi di qualcuno che incontriamo nella nostra vita quotidiana e che teniamo in grande stima. Oppure potrebbe essere qualcuno di famoso. Viviamo in una cultura della celebrità ed i giovani sono spesso incoraggiati ad avere come modello figure del mondo dello sport o dello spettacolo. Io vorrei farvi questa domanda: quali sono le qualità che vedete negli altri e che voi stessi vorreste maggiormente possedere? Quale tipo di persona vorreste davvero essere?».
A Enzo questo discorso sarebbe piaciuto anche perché questo era lo sforzo quotidiano che ne ha contraddistinto l’esistenza.
Lui era anche un devoto di Santa Gianna Beretta Molla, la prima santa ambrosiana dopo San Carlo Borromeo, madre di famiglia e medico, formatrice delle giovani dell’Azione Cattolica negli anni 50.
Ricordo che per impetrare la grazia della vittoria nella battaglia referendaria sulla fecondazione assistita, il giorno del voto, nel giugno 2005 Enzo organizzò un pellegrinaggio associativo sulla tomba di Santa Gianna e qui ci comunicò con gioia che il quorum di mezzogiorno era così basso da rendere praticamente certo l’annullamento della consultazione.
Di Santa Gianna desidero ricordare una stupenda espressione che mi ha fatto pensare ad Enzo e che dice “l’apostolato si fa in ginocchio”, a richiamare l’imprescindibilità della vita di orazione per il successo di qualunque impresa umana.
Uno dei temi che Enzo ha affrontato nel suo apostolato culturale in tema di famiglia è stato quello relativo alla necessità di riabilitare il ruolo e la figura paterna in una società indebolita dalla perdita del senso dell’autorità, dei valori, dell’educazione. Scrivendo proprio su questo tema, con parole che richiamano immediatamente l’esemplarità di Enzo, Roberto Marchesini afferma: «la madre dà la vita, il padre ha il compito sgradevole ma necessario di ripetere “memento mori”, ricordati che devi morire. La madre insegna a vivere; il padre insegna a morire, dopo avere dato uno scopo alla propria vita e quindi essere vissuti con onore. Se non c’è nulla per cui valga la pena di spendere la vita, questo è ciò che vale la vita: nulla».
Circa una settimana prima della sua morte, Enzo stava allestendo la sala per la festa di Natale di Alleanza Cattolica. Eravamo insieme a spostare tavoli e sedie per rendere più accogliente la sala che ci avrebbe ospitati per il rinfresco e lui appariva stanco, un po’ affaticato in quello scorcio finale di dicembre. Una signora, dopo averlo incontrato, gli disse che aveva bisogno di riposarsi e lui subito, con il consueto sorriso sulle labbra, le rispose “Signora, ci si riposerà in Paradiso!”
Non credo che avesse alcun tipo di presentimento: stava semplicemente esprimendo il senso profondo del suo modo di affrontare la vita.
Ne è prova inconfutabile quanto mi scrisse l’11 febbraio 2004 subito dopo aver ricevuto la notizia della morte dell’amico Marco Tangheroni:
«La mia mente lo vede sorridere in partenza sulle navi per la Divina Dimora, il mio cuore è ancora duro per riconoscere che ogni perdita umana di un giusto è sguardo amorevole e premuroso sul nostro povero operare nel tempo. Quando morirò vorrei che la nostra amicizia fosse ancora più grande e matura di quella presente».
E’ stato l’ennesimo esempio di cristianesimo vissuto che ho ricevuto da lui e che offro alla riflessione di ciascuno di voi.
Grazie.