Di tutta la storia degli Stati Uniti d’America quella che riguarda il Sud è certamente la più controversa. Schiavitù, Guerra “civile” (1861-1865), segregazione razziale: sono queste le “parole d’ordine” che, come in un riflesso pavloviano, un po’ tutti ci ritroviamo in bocca al solo sentir nominare i “sudisti” o la “vecchia Confederazione” (gli Stati Confederati d’America). Ma la realtà è a dir poco più complessa della vulgata cui siamo abituati, soprattutto in un contesto, quello della storia degli Stati Uniti, che in Italia viene affrontato quasi esclusivamente attraverso il cinema e qualche rigo a margine dei manuali scolastici. Se un primo buon antidoto è almeno Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti d’America di Thomas E. Woods Jr. (trad. it., a cura di Maurizo Brunetti, D’Ettoris, Crotone, 2012), testo lucidissimo nel descrivere in modo autentico non solo ma anche il Sud dei “sudisti”, una grande risorsa per iniziare un approccio più critico, e quindi equilibrato, al tema lo costituiscono due specialisti, tutti e due scomparsi alla fine dell’anno scorso: l’italiano Raimondo Luraghi (1921-2012) e lo statunitense Eugene D. Genovese (1930-2012).
Non è una novità, ma continua comunque a stupire il fatto che due autentici luminari, maestri anche di metodo storico, abbiano potuto attraversare il mondo della cultura e delle scienze passando sostanzialmente inosservati (per noi italiani uno stupore doppio nel caso di Luraghi più noto e apprezzato negli Stati Uniti che in Italia), e persino andare ad abitare il mondo dei più senza il viatico di un commiato degno dell’intelletto d’amore che, ben oltre le loro inclinazioni personali, li ha resi oggettivamente servitori fedeli di quella non poca cosa che è l’unica carità – diceva lo storico vandeano della Vandea, della Chiesa nella tempesta rivoluzionaria e dell’ordine dei gesuiti Jacques Crétineau-Joly (1803-1875) – concessa alla storia: la verità.
Tratterò qui di Luraghi, e la settimana ventura di Genovese. Milanese ma torinese d’adozione, dopo l’8 settembre 1943 Luraghi è partigiano prima in Giustizia e Libertà poi nella IV Brigata Garibaldi, viene decorato sul campo con la Medaglia d’argento al valor militare e quindi viene nominato capitano per meriti di guerra. Dopo la guerra, è redattore dell’edizione piemontese del quotidiano comunista l’Unità, quindi docente di Storia e Filosofia nei Licei, poi professore incaricato, ordinario e infine emerito di Storia americana, nonché coordinatore del Dottorato di ricerca in Storia delle Americhe nell’Università di Genova, ma pure docente a contratto di Storia americana e di Storia moderna all’università LUISS Guido Carli di Roma.
Luraghi è stato principalmente uno storico militare, in specifico della Marina da guerra, e sul tema ha pubblicato opere fondamentali che gli sono valse premi prestigiosi e docenze significative in America Settentrionale. Ma il suo contributo certamente più rilevante è quello dato alla conoscenza dell’“altra faccia della medaglia” della storia americana, articolati in almeno tre fulcri principali.
Il primo è quello dello studio per intero della lunga genesi “remota” del Paese che dal 4 luglio 1776 sono gli Stati Uniti. Attraverso l’analisi (e talora la presentazione sostanzialmente da noi inedita) dei successivi apporti europei al Nuovo Mondo, e dei loro lasciti più o meno duraturi nella cultura ivi poi dominante (quella anglofona e granbritannica), la “preistoria” degli Stati Uniti viene descritta attraverso una “stratigrafia” che, rendendo ragione di realtà storiche quali il vicereame della Nuova Spagna, la Nouvelle France e infine il New England, presenta una regione dell’«Europa fuori dall’Europa» la cui vera identità è quella dell’“accumulazione successiva” di influenze diverse. È questo l’argomento minuziosamente svolto nel corposo Gli Stati Uniti, 16° volume della Storia universale dei popoli e delle civiltà della UTET (Torino, 1981), il cui disegno storico viene opportunamente seguito anche da Paolo Mazzeranghi nei saggi dedicati agli Stati Uniti accolti nel volume – appunto – Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, a cura di Giovanni Cantoni e Francesco Pappalardo (D’Ettoris, 2007).
Il secondo è quindi il “nodo” della Guerra Civile, affrontato “di petto” in opere imprescindibili (talora tradotte e apprezzatissime nel mondo anglofono) come Storia della Guerra civile americana, 1861-1865 (Einaudi, Torino 1966, reprint Rizzoli, Milano 2009), The Rise and Fall of the Plantation South (New Viewpoints, New York 1978), Cinque Lezioni sulla guerra civile americana (La Città del Sole, Napoli 1997) e La spada e le magnolie. Il Sud nella storia degli Stati Uniti (Donzelli, Roma 2007). Luraghi è ineccepibile nel presentare da un lato la natura conservatrice e affatto sovversiva della cosiddetta “rivoluzione americana”, in realtà una guerra d’indipendenza, e dall’altro l’incidenza autenticamente rivoluzionaria della Guerra cosiddetta “civile” nel sovvertire per intero l’ordine costituzionale (conservatore) voluto dai Padri fondatori, nell’introdurre negli Stati Uniti una innovativa idea rousseaueana e quindi giacobina di “nazione”, insomma nello stravolgere l’identità di un Paese, pur senza mai negare gli efficaci, perché non sempre non riusciti, tentativi di vera riconciliazione nazionale messi in atto nella e dalla cultura statunitense. Questo non era il tema specifico di Luraghi, ma è stato anche questo, anzi lo è diventato, un interesse dominante di Eugene Genovese, il quale, non per caso, dagli studi storici sul Sud dei “sudisti” è approdato allo studio, pure per partecipazione, della cultura conservatrice americana contemporanea come luogo eccellente dell’“esperimento di riconciliazione nazionale”.
Il terzo ma non ultimo è l’annosa questione degl’“indiani” d’America, che Luraghi inizia a sviscerare nel citato Gli Stati Uniti della UTET e che poi focalizza specificamente in Sul Sentiero della Guerra, Storia delle Guerre Indiane nel Nordamerica (Rizzoli, 2000). Senza mai nemmeno avere l’aria di mirare a sostituire la diffusa “leggenda nera” con una improbabile “leggenda rosa”, lo studioso italiano affronta il tema senza sconti – a nessuno dei due fronti, “bianchi” e “indiani” – e, sempre con l’apparente tecnicalità di chi si occupa “solo” di strategie e di tattiche militari, fissa punti fondamentali. Fra i molti, il fatto che la presenza “indiana” in America all’arrivo dei “bianchi” fosse assai ridotta; che quello fra “bianchi” e “indiani” è stato sia scontro sia incontro (ed è già una grande notizia, visti i pregiudizi che circolano sull’argomento); ma soprattutto che la stagione dei grandi massacri d’“indiani” viene dopo la Guerra “civile”, essendone una delle conseguenze dirette. Un Paese stravolto anzitutto sul piano costituzionale e del diritto, “rifatto” sul piano culturale e antropologico da un potere statale nuovo e sconosciuto, ebbe cioè come “deriva coerente” l’alterazione dei rapporti umani e interculturali di un tempo e la creazione di un “mito del mondo nuovo”, “americanista”, che ha avuto negl’“indiani” il suo secondo, tragico banco di prova. Il primo, come ha appunto illustrato il Luraghi storico serissimo “di sinistra”, erano stati i “sudisti”.
Marco Respinti