Mercoledì 22 gennaio si svolgerà, nel cuore di Washington ‒ presumibilmente come sempre al freddo e al gelo ‒, l’annuale Marcia per la Vita nazionale. È la 40a da quando 41 anni fa, nel 1973, l’aborto venne legalizzato in tutti gli Stati Uniti attraverso la famosa e famigerata sentenza – un vero colpo di mano – emessa dalla Corte Suprema federale a conclusione del caso “Roe vs. Wade”.
Da 41 anni, l’aborto ferisce profondamente l’anima americana, lacerando come un coltello le carni del suo tessuto istituzionale, politico, giuridico, culturale e spirituale. In termini di vite umane, è costata più di cento guerre, e il suo peso tormenta senza posa la riflessione politica del Paese. In pochi Paesi l’aborto è infatti un tema comunque sempre politico e costantemente presente nel dibattito pubblico nazionale come lo è da più di quattro decenni negli Stati Uniti; e in nessun Paese è capitato, come è capitato negli Stati Uniti, che la massima autorità politica prendesse spontaneamente carta e penna, come invece fece il presidente Ronald Reagan (1911-2004) nel 1983, per dare voce scritta all’interrogativo profondo circa il destino che incombe sulla democrazia in un Paese che consente la distruzione gratuita di milioni e milioni di vite umane innocenti, e questo non tanto con un documento ufficiale protocollato e un po’ paludato, ma attraverso un vero e proprio articolo come lo avrebbe potuto scrivere un coscienzioso cittadino americano qualsiasi, una riflessione vera e sincera e non un atto istituzionale più o meno dovuto.
Quel fondamentale articolo di Reagan, intitolato Abortion and the Conscience of the Nation e pubblicato sulle pagine del fascicolo datato primavera 1983 del prestigioso trimestrale The Human Life Review di New York (poi tradotto in italiano dal sottoscritto e pubblicato sul n. 523 del mensile Studi cattolici del settembre 2004 con il titolo L’aborto & la coscienza della nazione. In memoria del presidente Ronald Reagan), resta ancora oggi un manifesto culturale non aggirabile con cui giocoforza tutta la politica statunitense si confronta per testare su di esso la risposta alla domanda autentica di libertà e di democrazia che dalle urne gli elettori pongono pressantemente al ceto politico che dirige e amministra il Paese ogni volta che si recano a votare.
Ciò detto, la cultura abortista statunitense sta vistosamente e innegabilmente arretrando. Lo testimonia freddamente il calcolo delle vittime che questa guerra, sporca e asimmetrica per definizione, miete anno dopo anno.
Già lo scorso anno, 40° anniversario della legalizzazione dell’aborto americano e occasione per la 39a Marcia per la Vita nazionale di Washington, lo affermò autorevolmente nientemeno che il famoso settimanale Time, sottolineando che diverse cliniche abortiste hanno finito per chiudere i battenti per questa o per quella ragione; che alcuni emendamenti di legge hanno attenuato sensibilmente la gravità della sentenza “Roe v. Wade”; e che l’azione benefica dei consultori e dell’attivismo pro-life ha prodotto effetti decisivi. Ma oggi la constatazione si fa ancora più palpabile, grazie alle importanti valutazioni stilate dall’American Right to Life (ARL), una delle sigle a difesa del diritto alla vita più antiche e attive del Paese nordamericano, forte anche di una vera e propria lobby attiva dentro il Partito Repubblicano.
Se, secondo quanto affermano ufficialmente organizzazioni note e del resto affatto pro-life quali l’Alan Guttmacher Institute ‒ legato a doppio filo alla Planned Parenthood, vale a dire il più potente, ramificato e danaroso abortificio mondiale ‒, il numero di morti innocenti causati dall’aborto statunitense ammonta oggi a più 56 milioni e mezzo di bambini, questa cifra sconvolgente sarebbe persino più grande, ben 64 milioni, se il trend di 1.6 milioni di vittime l’anno registrato nel 1990 fosse da allora a oggi proseguito costante anche senza aumentare. Ma quel trend si è invece arrestato, ha arretrato. Il numero degli aborti praticati annualmente negli Stati uniti è cioè calato, producendo un “buco” positivo di circa 7 milioni di bambini strappati alla morte.
Ora, questo risultato non sarebbe stato affatto possibile senza la costante, infaticabile e grandiosa mobilitazione prodotta da chi ha davvero a cuore i “princìpi non negoziabili” e quindi per essi, pur di fronte alla magnitudine scioccante dell’aborto e al rischio della disperazione, non si è mai dato per vinto.
Le cronache statunitensi sono piene, letteralmente, di storie di abortisti convertiti, di medici o madri pro-choice che hanno cambiato parere, di ex militanti dell’aborto che si sono trasformati in apostoli della vita, persino di dirigenti della Planned Parenthood che hanno mutato vita. Quelle stesse cronache parlano anche ‒ e di solito da noi l’eco mediatico è in questo casi maggiore ‒ di quei tali, magari pure credenti, a volte persino cattolici, che considerano ‒ inizialmente addirittura con rammarico, per carità‒ quella per l’affermazione del diritto alla vita una battaglia oramai irrimediabilmente persa e che quindi scelgono di non combatterla più accodandosi al pensiero dominante. Ma è la fredda legge dei numeri a smentire clamorosamente questa tentazione di disperazione. La battaglia per il diritto alla vita dimostra cioè di sapere raggiungere successi assolutamente significativi persino in quegli Stati Uniti, dove, abituati a fare sempre le cose in grande, come il bene che si può operare può essere grande, così anche il male che viene operato è potenzialmente enorme.
Gli americani hanno, da questo punto di vista, qualcosa da insegnare a tutti sul piano metodologico: non pensano mai, infatti, che il diritto alla vita, sia che lo si affermi, sia che lo si neghi, resti una questione confessionale, di parte, da “scelta religiosa”, ma ritengono invece che esso costituisca sempre una battaglia politica per il “sistema Paese”. Su questo, sono convinti, si scontra l’antagonismo tra due civiltà.