Gli Stati Uniti d’America sono il Paese più quotidianamente citato e al contempo il più sconosciuto. Non è certamente necessario essere degli estimatori della filosofia di Umberto Eco ‒ come noi certamente non lo siamo ‒ per riconoscere l’ironica verità sottile di un suo detto quasi proverbiale: quando si vuole nascondere una cosa, basta metterla in evidenza.
Degli Stati Uniti, cioè, Paese per certi versi vistosissimo, è ancora clamorosamente ignota o misconosciuta l’identità autentica: i princìpi su cui si reggono le loro istituzioni; il “pensiero americano” che li contraddistingue al di là delle opinioni dei singoli, dei partiti in perenne gara per il potere e delle scuole culturali contrapposte; le tradizioni che li animano; le caratteristiche plurali e al contempo unitarie dei suoi abitanti; i meccanismi giuridici; le inclinazioni economiche; l’aspetto religioso; e talvolta persino la lingua, peculiare com’è la forma d’inglese “vissuto” che a quelle latitudini parla, per prassi inveterata, la maggior parte degli abitanti.
La stragrande maggioranza di noi si sorprende per esempio ancora nello scoprire qual è, appunto, la lingua ufficiale degli Stati Uniti. Tutti, un po’ meccanicamente, ripetono infatti d’istinto, e vantando sicurezza, “l’inglese”: ma non è per nulla così. Perché la lingua ufficiale degli Stati Uniti è… nessuna; l’inglese è la lingua che da secoli, per consuetudine storica, parla la maggioranza degli abitanti degli Stati Uniti, e pertanto è ufficiosamente la lingua del Paese.
Più in profondità, ben pochi sanno che la gestazione ufficiale degli Stati Uniti, negli anni seguenti la dichiarazione dell’indipendenza dalla Gran Bretagna avvenuta nel 1776, fu un ampio e profondo dibattito di… storia. Alla ricerca di una forma istituzionale soddisfacente, a lungo si studiarono i precedenti disponibili: soprattutto e anzitutto la storia della Grecia antica; la storia della Roma monarchica, repubblicana e imperiale; la storia della Gran Bretagna. Nessuno dei Padri fondatori sprecò insomma il proprio tempo a sognare iperuranici e inesistenti “mondi migliori” (come si usava invece fare per esempio nelle “società di pensiero” della Francia prima illuminista e poi giacobina, prima incubando e poi implementando il disastro), ma tutti loro immaginarono un futuro concreto e possibile, servendosi dell’unico strumento che conoscevano meno peggio di ogni altro: il passato.
Si potrebbe continuare a lungo con esempi come questi; e del resto questa rubrica esiste, nel suo piccolo e con tutta umiltà, proprio per iniziare a farlo; per cominciare, cioè, a esplorare l’altra faccia degli Stati Uniti d’America, se è il caso apprezzandoli a ragion veduta per i motivi giusti e comunque smettendo di deprecarli a priori con argomenti sbagliati. Per non sottrarmi al compito, offro quindi alla meditazione un breve passaggio di un libro bello e per certi versi “dimenticato”, un po’ come purtroppo lo è il suo importante autore.
In un saggio del 1967, intitolato The Sovereignty of Christ or Chaos, poi raccolto nel volume, Citizen of Rome: Reflections from the Life of a Roman Catholic (Sherwood Sugden & Company, La Salle [Illinois]1980), il filosofo della politica Frederick D. Wilhelmsen (1923-1966) ha significativamente appuntato (glosso fra le righe, ovvero fra parantesi quadrate, per rendere più intellegibili alcuni riferimenti storici):
Per ironia della storia, le colonie britanniche dell’America Settentrionale hanno preservato l’eredità medioevale meglio di quanto abbia fatto la maggior parte delle più antiche provincie europee della Cristianità. Esse sfuggirono al Rinascimento, e dunque qualcosa persero, così come al contempo qualcosa però guadagnarono. Non conobbero la grazia delle arti plastiche e lo splendore della poesia rinascimentali, né sperimentarono l’ultima sintesi cattolica dell’Occidente costituita dalla civiltà barocca degli Asburgo. Eppure, le colonie britanniche dell’America Settentrionale portarono nel nuovo mondo molte istituzioni tipicamente medioevali. Lo sceriffo e il posse [il corpo di uomini dotati di autorità giuridica che, in una comunità, lo affiancano per far rispettare l’ordine, indicato con l’infinito del verbo latino “potere”-ndr.] ‒ figure rintracciabili nella mitologia del nostro West ‒ sono semplicemente istituti medioevali armati di pistole a sei colpi invece che di lunghi archi (quanti sanno che il posse mostrato in un film di John Wayne è il posse comitium della tradizione giuridica cattolica?) [Il posse comitium, o posse comitatus, indica il gruppo di persone che lo sceriffo di una contea ha il potere di convocare per far rispettare la legge in caso di disordini-ndr.]. Ancora più significativamente, la tradizione delle libertà locali e dell’autogoverno, quella dei cosiddetti “States’ Rights” [i diritti ritenuti dai singoli Stati dell’Unione nordamericana rispetto al governo centrale, fra l’altro alla base del dibattito costituzionale dei futuri Stati Uniti fra 1787 e 1789; al centro della Guerra di Secessione (1861-1865), vera e propria “disputa costituzionale in armi”; e al cuore delle attuale denunce conservatrici della crescita ipertrofica del “Leviatano federale”-ndr.] e quella dell’indipendenza della magistratura sono tutti retaggi di un mondo che già stava morendo in Europa quando Colombo, a bordo delle caravelle, fece vela verso occidente alla ricerca delle Indie. Pur ferita dagl’influssi paralizzanti dell’animo puritano, e pur guastata dalle influenze esercitate su di essa dall’illuminismo razionalista, l’esperienza di governo americana [non l’“esperimento”-ndr.] è se non altro riuscita a sottrarsi sia all’assolutismo della monarchia francese, sia a quello ben più grave della Rivoluzione Francese.
Wilhelmsen è stato uno dei pionieri e quindi dei maestri del conservatorismo statunitense sin dai suoi albori, e in esso ha sempre trasfuso un carattere decisamente cattolico. Filosofo della politica, tomista orgoglioso, cultore di storia della Cristianità e appassionato di navigazione, era di casa in Spagna (sulla cui Guerra civile [1936-1939] nutriva, senza la minima vergogna, documentate opinioni diametralmente opposte a quella della vulgata progressista) ed è stato al centro di iniziative culturali di primaria importanza. Per esempio, l’animazione del periodico cattolico, diretto da L. Brent Bozell Jr. (1926-1997), Triumph (1966-1975), sulle cui pagine firmavano nomi eccellenti fra cui Russell Kirk (1918-1994) e Christopher Dawson (1889-1970), Erik von Kuehnelt-Leddhin (1909-1999) e John Lukacs, Thomas Molnar (1921-2010) e il calvinista “tradizionalista” Rousas John Rushdoony (1916-2001), il cardinale Charles Jounrnet (1891-1975) e Otto d’Asburgo-Lorena (1912-2011). Amico fraterno del filoso della comunicazione cattolico canadese Marshall McLuhan (1911-1980), è stato definito ‒ lui, statunitense ‒ “miglior interprete della tradizione carlista” dall’insigne giurista spagnolo Álvaro d’Ors (1915-2004). Collaboratore di numerose testate ‒ fra cui, in Spagna, Verbo, fondata e diretta dal giurista Juan Vallet de Goytisolo (1917-2011) ‒, e docente in vari atenei non solo statunitensi, Wilhelmsen fissò la propria dimora accademica nell’Università di Dallas, a Irving, in Texas, dove ha insegnato dal 1965 fino alla morte, ateneo cattolico, uno dei più prestigiosi del Paese nordamericano. Oggi lì insegna sua figlia, Alexandra, nata a Madrid, raffinata linguista, ispanista e studiosa della Contro-Rivoluzione nel secolo XIX.
Certo, il passaggio sul “Medioevo statunitense” di Frederick Wilhelmsen sopra riportato non è che una suggestione, un sintomo. Ma sappiamo tutti bene che la piccola punta di un iceberg è la bandiera visibile di una realtà “carsica” enorme, così come, a nostre spese, impariamo sempre assai rapidamente quanto sia dannoso ignorare i sintomi, cattivi o (come in questo caso) buoni che siano.
Marco Respinti