La libertà religiosa è il diritto costituzionale che fonda tutti gli altri diritti di ogni cittadino americano. Oggi, in Occidente, il pericolo maggiore alla libertà religiosa proviene dal laicismo che vorrebbe al massimo relegare la fede a fatto privato di coscienza. Negli Stati Uniti la punta di diamante dell’offensiva laicista è la riforma sanitaria voluta dal presidente Barack Obama. Ma, prima di analizzare il modo in cui quella riforma, detta “Obamacare”, viola in modo palese e grave il diritto fondamentale dei cittadini americani, è opportuno qualche ulteriore ragionamento di fondo.
La rivoluzione del 1947
Il momento storico in cui la dottrina classica sulla libertà religiosa statunitense entra in crisi è segnato dalla sentenza emessa dalla Corte Suprema federale nel 1947 a conclusione del caso “Arch R. Everson v. Board of Education of the Township of Ewing, et al.”, contraddistinto dalla sigla 330 U.S. 1 (1947) e noto comunemente come “Everson v. Board of Education”. Essa applicò infatti la Clausola sulla religione e lo Stato (detta “Establishment Clause”) del Primo Emendamento alla Costituzione federale (i primi Dieci Emendamenti, approvati nel 1791, sono parte integrante e imprescindibile del testo costituzionale e noti come Bill of Rights) alle legislazioni dei singoli Stati componenti l’Unione nordamericana. In precedenza, invece, il Primo Emendamento era sempre e solo stato applicato, perché così voluto dai suoi estensori e perché in questo modo sempre interpretato dalla giurisprudenza, allo Stato federale, al quale viene appunto impedito sia di erigere una religione a confessione di Stato federale sia d’interferire con la libertà di religione, nonché di espressione e di associazione religiose pubbliche, nei singoli Stati.
Un cittadino dello Stato del New Jersey aveva fatto causa al sistema scolastico pubblico locale che rimborsava delle spese sostenute per il trasporto scolastico le famiglie sia di scuole statali sia di scuole private. Per quel cittadino, infatti, il rimborso alle famiglie di alunni di scuole private religiose violava il divieto che la Costituzione impone allo Stato di favorire le religioni. Il caso divise profondamente i giudici, ma alla fine non impedì che entrambe le parti si pronunciassero decisamente a favore di una netta separazione fra Stato e religione a livello tanto federale quanto di singoli Stati; e così, sia il parere di maggioranza, guidato dal giudice liberal, membro del Partito Democratico, Hugo L. Black (1881-1971), sia quello di minoranza, capitanato dal giudice non meno progressista Wiley B. Rutledge (1894-1949), si trovarono d’accordo nello scovare, fra le pieghe del Primo Emendamento, quel famoso «muro di separazione fra Chiesa e Stato» che invece non esiste affatto né nella lettera né nello spirito del Bill of Rights. Anzi, in quelle famose parole assenti dalla Costituzione i giudici supremi scovarono persino un “palese” intento delle istituzioni americane di difendere lo Stato dall’ingerenza delle Chiese e dei gruppi religiosi che in realtà consegna al primo un potere pressoché assoluto di censura sui secondi, come invece non è nelle parole originarie pronunciate da Thomas Jefferson (1743-1826, terzo presidente degli Stati Uniti dal 1801 al 1809). Perché ‒ non va mai scordato ‒ la metafora del «muro di separazione» esiste solo nella famosa lettera inviata dall’allora presidente federale all’Associazione battista di Danbury, in Connecticut, molto dopo la scrittura e l’entrata in vigore del Primo Emendamento, e per di più con significato esattamente opposto: quello di preservare la libertas ecclesiae dalla rapacità vera o presunta, reale o virtuale, attuale o prevista dello Stato.
Ora, la forma giuridica del principio/diritto alla libertà religiosa garantita a chiarissime lettere dalla dottrina del costituzionalismo statunitense, e più volte ribadita e sottolineata dai Padri Fondatori, da ultimo Jefferson ai battisti di Danbury, è di fatto la medesima vigente in Occidente almeno dall’Editto di Milano del 313. La libertà religiosa non è cioè una concessione più o meno graziosa dello Stato ai cittadini, né una sine cura che lo Stato regala alla Chiesa per “collusione” della seconda o “concorso esterno” del primo in una sorta di spartizione del potere, né tantomeno l’esito pratico di una teoria della tolleranza elaborata da una “società di pensiero”, bensì un’area d’immunità (come afferma il magistero della Chiesa Cattolica) dotata di confini invalicabili, off-limits per lo Stato che si ferma fuori dal recinto. Illustrano bene questa concezione Gabrio Lombardi (1913-1994) nel volume Persecuzioni, laicità, libertà religiosa: dall’Editto di Milano alla Dignitatis humanae (Studium, Roma 1991), nonché Giovanni Cantoni e Massimo Introvigne nello studio Libertà religiosa, “sette” e “diritto di persecuzione”. Con appendici (Cristianità, Piacenza 1996).
La libertà religiosa precede pertanto l’imperium politico, il va sans dire lo Stato, poiché per natura attiene intrinsecamente da un lato ai diritti della persona umana e dall’altro ai diritti di Dio. Non è pertanto necessario essere d’accordo anche con la sua ecclesiologia problematica per cogliere, a questo punto, la grande verità consegnata dal padre gesuita John Courtney Murray (1904-1967) alle pagine del suo famoso e importante We Hold These Truths: Catholic Reflections on the American Proposition, del 1960: «Il Bill of Rights statunitense non è un saggio di dottrina razionalistica settecentesca; è invece più un prodotto della storia cristiana. Dietro di esso non si staglia la filosofia dell’Illuminismo, ma quella filosofia più antica che è stata la matrice del Common Law. L’“uomo” di cui si garantiscono i diritti davanti alla legge e al governo è, che egli lo sappia o no, l’uomo cristiano che ha imparato a conoscere la propria dignità alla scuola della fede cristiana».
La sentenza “Everson v. Board of Education” costituisce dunque una vera e propria rivoluzione poiché rovescia completamente il concetto di libertà religiosa vigente da sempre negli Stati Uniti e, trasformandolo in una fattispecie della tolleranza dello Stato, spalanca le porte al laicismo. «Il Primo Emendamento», scrisse falsamente e contro ogni giurisprudenza il giudice Black, firmando il parere di maggioranza a conclusione di quel caso, «ha eretto un muro fra la Chiesa e lo Stato. Quel muro dev’essere mantenuto alto e impenetrabile. Non possiamo consentire che in esso si apra la minima crepa. E qui lo Stato del New Jersey non ha aperto alcuna crepa». Il laicismo tipico delle società democratiche occidentali, infatti, scambia il primo dei diritti della persona con una prerogativa intimistica della sua coscienza, e quindi consente la libertà di religione solamente come espressione personale e il più possibile privata di una fede che, per definizione, non può e non deve avere alcuna dimensione pubblica. Il tributo meramente verbale e di circostanza alla libertà intimistica di religione, intesa come una graziosa e revocabile concessione dello Stato, è del resto quella che oggi caratterizza la politica di Obama.
La restaurazione del giudice Rehnquist
Ma nemmeno la rivoluzione della sentenza “Everson v. Board of Education” è riuscita a sradicare completamente i due secoli di storia e di giurisprudenza che sono stati il marchio di fedeltà del Paese all’intento originario dei Padri Fondatori, graniticamente scolpito in quella carta d’identità degli Stati Uniti che sono l’“endiadi” di Costituzione federale e Bill of Rights. Lo testimonia bene il palese imbarazzo dimostrato dalla Corte Suprema federale nella sentenza che nel 1971 chiuse il caso “Alton T. Lemon, et al. v. David H. Kurtzman, Superintendent of Public Instruction of Pennsylvania, et al.; John R. Earley, et al. v. John DiCenso, et al.; William P. Robinson, Jr. v. John DiCenso, et al.”, contraddistinto dalla sigla 403 U.S. 602 (1971) e noto comunemente come “Lemon v. Kurtzman”.
In quella occasione, la suprema magistratura giuridica del Paese nordamericano giudicò violazione del Primo Emendamento una legge del 1968 con cui lo Stato della Pennsylvania concedeva al Provveditorato di rimborsare alle scuole non statali, in maggioranza cattoliche, i salari corrisposti ai docenti che insegnavano utilizzando materiali didattici di “produzione laica”, e contemporaneamente si pronunciava in maniera analoga nei confronti dello Stato del Rhode Island. Ma, assai significativamente, il presidente della Corte Suprema federale, Warren E. Burger (1907-1995), un Repubblicano moderato, di fatto sconfessando la sostanza della sentenza “Everson v. Board of Education” vergata dal giudice Black (il quale peraltro gli si accodò), osservò che tra Stato e Chiesa vi è più che altro «[…] una linea di separazione», la quale, «lungi dall’essere un “muro”, è una barriera confusa, indistinta e mutevole che dipende dalle molteplici circostanze imposte da questa relazione particolare».
L’ermeneutica più convincente di questa fattuale resa all’evidenza dei fatti da parte dal giudice Burger, che certo non cancellò i danni prodotti dal giudice Black ma che almeno tornò a dire mezza verità, è il parere di minoranza firmato dal giudice William H. Rehnquist (1924-2005) nella sentenza che nel 1985 chiuse il caso “Wallace, Governor of Alabama, et al. v. Jaffree, et al”, contraddistinto dalla sigla 472 U.S. 38 (1985) e noto comunemente come “Wallace v. Jaffree”.
In quella sentenza, famosa, fu decisa l’incostituzionalità di una legge dell’Alabama che autorizzava gli insegnanti ad aprire le lezioni di scuola con un minuto di preghiera silenziosa, ma Rehnquist, conservatore, poi presidente della Corte Suprema dal 1986 alla morte, scrisse: «È impossibile costruire una dottrina costituzionale solida sopra un’errata comprensione della storia costituzionale, ma sfortunatamente la Clausola sulla religione e lo Stato [“Establishment Clause”] è stata per 40 anni espressamente appesantita dalla fuorviante metafora di Jefferson. Tutti sanno che Thomas Jefferson si trovava in Francia quando gli Emendamenti costituzionali noti come Bill of Rights vennero varati dal Congresso e ratificati dagli Stati. La sua lettera all’Associazione battista di Danbury fu una breve nota di cortesia, scritta 14 anni dopo che il Congresso aveva varato gli Emendamenti. Un osservatore distaccato giudicherebbe seriamente Jefferson come la fonte storica coeva ai fatti meno ideale per stabilire il significato della Clausola sulla religione del Primo Emendamento». Del resto, «nonostante l’assenza di basi storiche a supporto di codesta teoria di separazione rigida, l’idea del muro avrebbe almeno potuto servire come strumento di analisi utile ancorché sbagliato qualora avesse portato questa Corte a risultati unitari e fondati in tutti i processi riguardanti la Clausola sulla religione e lo Stato. Sfortunatamente, è vero però il contrario; nei 38 anni trascorsi dal caso “Everson v. Board of Education” i nostri processi inerenti quella Clausola non sono stati né fondati né unitari. Le nostre sentenze recenti, molte delle quali lacerate da divisioni senza speranza, hanno concluso, con candore imbarazzante, che il “muro di separazione” è unicamente “una barriera confusa, indistinta e mutevole”, che “non è affatto precisa” e che può essere solo “vagamente percepita”». Ma ‒ prosegue Rehnquist ‒ «il danno maggiore che la concezione del “muro” produce è il malizioso distrarre i giudici dalle intenzioni autentiche degli estensori del Bill of Rights. […] Il “muro di separazione fra Chiesa e Stato” è una metafora basata su una storia ricostruita male, una metafora che si è dimostrata inutile per orientare la giustizia. Dovrebbe essere francamente ed esplicitamente abbandonata».
Bobby Jindal for President
Ebbene, solo con questo background è possibile cogliere appieno la grande disfida oggi in corso fra Obama da un lato e l’universo conservatore più i gruppi religiosi dall’altro, apprezzando fino in fondo il peso del discorso pronunciato il 20 febbraio da Piyush “Bobby” Jindal alla Reagan Presidential Library di Simi Valley, in California, e disponibile, in una prima traduzione italiana integrale, sulle pagine del quotidiano Il Foglio. Nato a Baton Rouge nel 1971 da genitori immigrati da Punjab indiano, Jindal è l’attuale, giovane governatore dello Stato della Louisiana. Membro del Partito Repubblicano, è uno dei grandi beniamini dei conservatori, ovvero di coloro che anche in politica hanno fortemente a cuore i “princìpi non negoziabili”. Ed è cattolico, convinto, convertito dall’induismo. Qualcuno lo proietta già nella corsa alla Casa Bianca del 2016.
«Di recente», ha detto Jindal, «ho parlato in termini molto negativi dei disastrosi effetti della riforma sanitaria, mi sono espresso sul disperato bisogno che abbiamo di riformare il sistema di istruzione, ho detto chiaramente che la nostra patria ha la tremenda urgenza di tornare al concetto della crescita economica che il presidente Reagan aveva perorato in modo incredibile. Queste sono questioni di importanza capitale, essenziali per il futuro dell’America. Stasera però, ho intenzione di parlarvi di un argomento completamente diverso, un argomento che potrebbe sorprendervi. Stasera vorrei fare un discorso che non ho mai fatto prima, vorrei parlare di un argomento nascosto appena sotto la superficie, vorrei parlarvi della guerra silenziosa alla libertà religiosa.
«Non riesco a pensare a un luogo più adatto della Ronald Reagan Foundation and Library per questo discorso. Lo stesso presidente Reagan ha detto che “la libertà non è prerogativa esclusiva di pochi prescelti, è il diritto universale di tutti i figli di Dio”. Quando lo disse, non esprimeva un credo strettamente personale nella natura dell’uomo in quanto essere creato, in quanto figlio di Dio. Stava riaffermando il contenuto basilare della fondazione dell’America, esposta nella dichiarazione d’indipendenza, cioè che siamo una nazione costituita in conformità alle “leggi della natura e della natura di Dio,” e che siamo un popolo “a cui il Creatore ha donato alcuni Diritti inalienabili”.
«Permettetemi di fare chiarezza: la fonte e la giustificazione dell’esistenza stessa degli Stati Uniti d’America è ed è sempre stata dipendente dalla concezione dell’uomo come essere creato, con un Creatore che gli ha donato diritti intrinseci “fra i quali la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Il modo in cui concepiamo e accostiamo quel Creatore è giustamente lasciato ai cuori ed alle coscienze di ogni cittadino. Sono un cristiano cattolico. I miei genitori sono induisti. Mi ritengo fortunato, perché conosco battisti, ebrei, episcopaliani, presbiteriani, e molti altri protagonisti del ricco quadro delle fedi americane. E conosco uomini e donne che non riconoscono alcuna denominazione o alcun credo, confessano la loro incertezza riguardo al divino, eppure ammirano la ricchezza della natura e la maestà di questo mondo, e si domandano chi sia l’Autore di tutto questo, e privatamente lo ricercano».
Per poi proseguire: «In questi giorni pensiamo che tale diversità di credo sia tollerata, ai sensi della nostra legge e della nostra Costituzione. Eppure sbagliamo. Tale diversità è il fondamento della nostra legge e della nostra Costituzione. L’America non sostiene e crea la fede. È la fede che ha creato e che sostiene l’America. Il presidente John Adams, nel 1798, scrisse ai miliziani del Massachusetts per ricordare loro che “la nostra Costituzione è stata creata solo per persone morali e religiose. È totalmente inadeguata a governare qualsiasi altro tipo di persona”. Nel 1798, quest’idea era semplice buonsenso. Nel 2014, siamo costretti ad affrontare un problema che sarebbe stato inimmaginabile per il presidente Adams. E per il presidente Washington, e per il presidente Reagan, e per qualsiasi altro americano nella storia che abbia creduto nella premessa fondante dell’America.
«Cosa succede quando il nostro governo decide di non aver più bisogno di “persone morali e religiose?”. Al giorno d’oggi il popolo americano, che ne sia consapevole o meno, è preso di mira da una guerra silenziosa. Essa minaccia il tessuto delle nostre comunità, la salute delle nostre pubbliche piazze, la resistenza della nostra governance costituzionale.
«È una guerra contro le affermazioni contenute nella dichiarazione d’indipendenza. […] È una guerra – una guerra silenziosa – contro la libertà religiosa. Questa guerra viene condotta nei nostri tribunali e nelle sale del potere politico. È perseguita con determinazione severa e implacabile da un gruppo di élite concordi, determinate a trasformare la nazione da una terra sostenuta dalla fede, in una terra dove la fede è messa a tacere, privatizzata e circoscritta.
«La loro visione dell’America non è la visione dei Padri fondatori. Non è neppure la visione di dieci anni fa. È una visione nella quale alla devozione individuale nei confronti del Dio onnipotente si concede lo stesso rispetto che si concede a un hobby occasionale, più o meno con gli stessi diritti e protezioni. Queste élite hanno finora dovuto affrontare ben poca opposizione, ora un’organizzazione non profit, ora un avvocato zelante, ora una piccola azienda. Una manciata di organizzazioni di sani princìpi con il coraggio di ribellarsi al peso schiacciante del consenso liberal, contrario alla loro partecipazione al dibattito pubblico. Sono quei “reduci” che hanno la temerarietà di credere nell’America e nelle sue premesse fondanti, e di fare qualcosa per proteggerle».
In modo ancora più incisivo, Jindal afferma: «Sotto Obama, il presidente e i suoi alleati stanno intenzionalmente perseguendo la strada del conflitto, partendo dal presupposto che nel momento in cui avvii un’attività devi immediatamente sacrificare le tue credenze più sacre e profonde al governo. Hai la protezione del Primo emendamento come individuo, certo, ma nel momento in cui fondi un’azienda scordati quella protezione».
L’ora della riscossa
«E questo», ha precisato il governatore Jindal, «ci porta al secondo fronte della guerra silenziosa: l’assalto alla nostra libertà di associazione in quanto persone di fede, per creare organizzazioni dove lavoriamo assieme ad altri per poter condividere le nostre idee. […]»
«L’Illinois ci dà un’anticipazione di ciò che accadrà. Nella legge da loro proposta per modificare la definizione di matrimonio, avrebbero richiesto alle chiese e alle altre congregazioni di chiudere le loro porte agli estranei, di smettere di fornire servizi alla comunità, e di non dare le loro strutture ad altre organizzazioni non profit o ad altre chiese, per evitare di ricevere richieste di ospitare cerimonie di matrimonio fra persone dello stesso sesso. […]
«Questo è il prossimo passo dell’assalto, ed è solo l’inizio. Al giorno d’oggi, la stragrande maggioranza di quelli che appartengono a una religione in America – e parliamo di più di metà della nazione – sono membri di organizzazioni che affermano la definizione tradizionale di matrimonio. Tutte queste denominazioni saranno oggetto di attacco in vari gradi nel corso dei prossimi anni. Le chiese in America riusciranno mai a rimanere parte della scena pubblica, in un momento nel quale le loro idee sul peccato sono in diretto conflitto con la cultura, e quando l’espressione di tali idee sarà vista come un tentativo di mascherare l’hate speech dietro alla protezione religiosa? […]
«Questa guerra alla libertà religiosa – alla vostra libertà di esercitare la religione, alla vostra libertà di associarvi, alla vostra libertà di espressione – non farà altro che continuare. Continuerà a causa di un’idea, di un concetto spericolato al quale apparentemente il presidente Obama crede: che la libertà di religione coincida con la libertà di culto, e basta. In questo concetto distorto e non americano di libertà religiosa, i vostri diritti iniziano e finiscono sulle panche della chiesa. Per quelli che fra noi credono in un mandato più grande, questa idea è ovviamente sciocca. Il presidente suggerisce che il diritto di pregare e il diritto a evangelizzare e a praticare liberamente siano la stessa cosa. Non lo sono, e non sono ciò che viene chiaramente protetto dal Primo emendamento: la libertà di praticare la nostra fede e di proteggere le nostre coscienze, anche se quelle attività non accadono all’interno delle quattro mura che delimitano una chiesa. Abbiamo il diritto di praticare la nostra fede e di proteggere la nostra coscienza, non importa dove».
E quindi, in conclusione: «È una guerra armata contro la religione, non una guerra silenziosa. Qui, in America dovremmo essere grati del fatto che le leggi e i princìpi messi in atto dai Fondatori, da uomini come George Mason e James Madison e Patrick Henry, che capivano l’importanza della libertà di religione, siano durati così a lungo. Sono la ragione per la quale l’America è riuscita ad avere un successo senza pari, e sono quegli stessi princìpi che dovrebbero portarci ancora più avanti: princìpi che capiscono che il potere deriva dalle persone, non dal governo. Calvin Coolidge lo aveva capito a suo tempo: “Viviamo in un’età di scienza e di abbondanza di cose materiali. Eppure queste non hanno creato la nostra Dichiarazione. La nostra Dichiarazione le ha create. Le cose dello spirito vengono per prime. Se non ci aggrappassimo ad esse, tutta la nostra prosperità materiale, per quanto immensa possa apparire, si trasformerebbe in uno sterile scettro nelle nostre mani”. Le cose dello spirito vengono effettivamente per prime. Dobbiamo agire, e agire adesso, per proteggerle. Per qualcuno la tentazione è quella di chiedere una tregua in queste difficili battaglie; ma in termini pratici, una tregua porterebbe solamente all’abbandono delle armi da parte di chi attribuisce valore alla libertà religiosa. La nostra libertà religiosa è stata vinta nel corso di persecuzioni e sangue, e non dovremmo arrenderci senza lottare.
«Sia chiaro: la guerra per la libertà religiosa è una guerra per la libertà di parola, e senza la prima non vi è la seconda. Se dessimo al governo il potere di scegliere quale teologia è accettabile e quale invece è punibile per legge, avremmo dato al governo un controllo più ampio sulle nostre vite e sulla libertà religiosa delle future generazioni mai sperimentato prima. E abbiamo rifiutato per principio la prospettiva di un posto speciale per la religione nella nostra società, che ha gettato i semi per i movimenti che hanno dato termine alla schiavitù, hanno conquistato i diritti civili, e hanno portato alla rivoluzione americana.
«Questa è una battaglia che nessuno di noi avrebbe voluto combattere, ma è una battaglia nella quale siamo chiamati ad intervenire, e dovremmo farlo con gioia, con i nostri cuori e le nostre menti rivolti al bene superiore».