Una riflessione sulla decadenza della cultura cristiana e sulla sua potenziale rinascita, partendo da un’osservazione della natura.
Plinio il Vecchio definiva l’Isola d’Elba: “Isola feconda di vino”. “Ecco, Susanna parla sempre del vino”. Ma se mi seguite ancora per qualche riga vedrete che, partendo dalle vigne, vi porto a riflettere sulla decadenza della cultura cristiana e sulla sua potenziale rinascita.
Dunque, dicevo: l’Elba ha una notevole tradizione enologica e un tempo i declivi scoscesi dell’isola erano tutti terrazzati, con solidi muretti a secco, e sulle balze si coltivava la vite. I più anziani del paese ancora oggi ricordano quanto fossero belle quelle colline, pulite e ordinate, con i filari regolari.
Ma possiamo immaginare quanta fatica costasse ai vignaioli coltivare quel territorio aspro e difficile. Ci si rompeva la schiena. E quando a partire dagli anni ’50 l’isola si riempie di turisti, ci si accorge che è molto più remunerativo coltivare alberghi, ristoranti, gelaterie e stabilimenti balneari. Così l’elbano scende dalle colline e lavora sul lungomare. I campi vengono abbandonati, i filari dimenticati, i cinghiali scavando il terreno alla ricerca di cibo distruggono i muretti a secco, e ben presto i rovi hanno la meglio sulla vite.
I contadini erano davvero dei guardiani del territorio, oggi ormai incolto e selvaggio. Me ne accorgo nelle mie passeggiate mattutine: mi alzo presto anche d’estate, e mentre aspetto i miei familiari dormiglioni passeggio lungo una splendida strada panoramica. Guardo quelle colline coperte di rovi e sospiro, ricordando che il nostro Nonno Nestore su quelle balze coltivava le vigne e faceva un aleatico che purtroppo io non ho fatto in tempo ad assaggiare.
Ma una mattina, guardando con più attenzione, mi sono accorta che qualche tralcio di vite ancora cresce tra i rovi, e addirittura qualche grappolo spunta in mezzo alle spine. Sono passati decenni, eppure la pianta non si arrende, le sue radici sono evidentemente robuste, e nonostante sia stata abbandonata resiste ancora. Il rovo, forte e arrogante, non riesce a soffocarla del tutto. Se un contadino si rimboccasse le maniche, tagliasse quei rovi, ripulisse tutto intorno, riparasse il muretto a secco, la vigna ricrescerebbe rigogliosa.
In fondo, è così anche per la società cristiana. “Ci fu un tempo …” diceva Leone XIII ricordando lo splendore del Medioevo cristiano. Ma non tutto è perduto. Come quelle vigne resistono alle avverse condizioni, in attesa di tempi migliori, così anche la nostra fede resiste agli attacchi. I rovi della Rivoluzione cercano di soffocarla, ma lei resiste, e dà anche dei frutti.
Finisce la vacanza e torno in città. Davanti a casa mia c’è il cantiere della nuova linea della metropolitana. Asfalto, ruspe, polvere e gru. Ma mi accorgo con stupore che in mezzo all’asfalto è cresciuto un albero. No, non esagero: un albero. Lo guardo bene, è uguale ad un albero che si innalza più lontano, vicino al parco. Evidentemente un seme di quell’albero è caduto lontano, sull’asfalto, ma non è morto, ha messo radici, è cresciuto, senza che nessuno lo curasse, nell’ambiente più ostile che si possa immaginare.
Ecco un’altra immagine che fa riflettere: non c’è ambiente avverso che ci possa impedire di fare fruttare quello che ci sta a cuore. Il seme buono non si arrende, cresce anche se abbandonato dall’uomo. Se poi l’uomo lo coltiva e lo protegge, il frutto è ancora più abbondante. Non perdiamo la speranza. Come diceva Tolkien: “Le radici profonde non gelano”.
Susanna Manzin