Una meditazione sulla famiglia a tratti anche commovente. Marianna si è immersa in San Tommaso Moro, nel suo “La agonía de Cristo” e ne esce colpendo nel segno la “colonizzazione ideologica” da cui Papa Francesco ci ha messo in guardia.
Mettete assieme una piccola libreria del Sudamerica, la voglia di approfondire lo spagnolo, le esigue entrate di un dottorando e un’innata simpatia per San Tommaso Moro: risultato? L’acquisto di “La agonía de Cristo”. Sì, non un titolo invitante per chi punti a una lettura leggera, che accompagni e allieti il lungo viaggio di rientro in Italia. Ma se “le strade del Signore sono infinite”, come dicono tutti, questa non ne è che l’ennesima riprova.
Sin dalle prime pagine, l’effetto che questo libricino esercita su di un’anima inquieta, forse anche triste, è quello non solo di metterla a suo agio, ma di farla ridere addirittura. Il santo avvocato – almeno qualcuno c’è a dar prova della possibile bontà della categoria – ci parla di come preghiamo; di come, nonostante le nostre profondissime professioni di fede, facilmente recitiamo il Padre Nostro pensando a cosa abbiamo messo sul fuoco o a quanto ci stia antipatico il nostro vicino. Non esclude nemmeno che nell’orazione il fedele giunga a perdersi in contenuti osceni. Oltre al riso, ci si sente subito tutti umani, tutti san Tommaso, tutti discepoli che si addormentano. Vale la pena continuare, allora: se sono santi loro, perché non noi?
L’uomo
Dell’uomo, del suo limite naturale, della sua inevitabile esposizione alla tentazione, soprattutto quando si sente più al sicuro, c’è tutto. Lo stesso, però, può dirsi di Cristo, della Sua stessa fragilità. Egli, vero Dio, non è nemmeno lontanamente paragonabile all’imperfezione delle Sue creature. Eppure, la Sua reale e piena umanità, che si rivela nel Getsemani, ci dà il metro e gli strumenti per guardare alle nostre sofferenze e per capire come superarle… assieme a Lui. Il modo in cui Cristo soffre riduce la nostra distanza, la nostra solitudine, la nostra disperazione. Il modo in cui prega per sentirsi sollevato ci ricorda che per non sentirci abbandonati possiamo e dobbiamo correre in un posto solitario e silenzioso e rivolgerci al Padre, non agli uomini. Sembra assurdo, lo so; ma non lo è più di quanto lo siano le risate suscitate da un libro che parla di agonia e che è stato scritto da chi si trovava in prigione, in attesa del martirio. Il modo in cui Cristo dei discepoli dica “lasciateli andare” ci dice ancora che nemmeno un nostro capello andrà perduto, che è Lui ad aver già sofferto tutto, massimamente, per la nostra salvezza, definitivamente. Perché piangere allora?
Il libretto di seconda mano si rivela così, invece che la pesantissima lettura che, in tutta onestà, già si temeva di non riuscire a portare a termine (ennesimo libro magnifico … e pieno di polvere su uno scaffale), una risorsa costante. I passi sono centellinati, per non finirlo troppo presto. Lo sponsorizzi agli amici: soprattutto a quelli più felici che ben potrebbero, da un momento all’altro, essere preda dello sconforto e trovarsi disorientati. Ma c’è di più. Non solo pare scritto ieri – ché il linguaggio utilizzato è quello corrente; la storia della passione riesce anche, in un dettaglio, a dirci qualcosa di molto preciso e infinitamente prezioso in tema di famiglia, di chi la difende, di chi oggi la osteggia.
Il bacio
“Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo”. Non c’è persona che non conosca questo dettaglio: per far capire ai farisei quale fosse Cristo, Giuda lo baciò, così consegnandolo nelle loro mani. Al di là del dato quasi ridicolo (se non approfondito) del bisogno di un’identificazione (dopo tre anni di predicazione, quando ormai tutti sapevano, o potevano sapere, quale fosse Gesù), quel che conta è che il più puro ed immediato simbolo dell’amore sia stato corrotto. Il bacio, che da sempre unisce la madre al figlio e la moglie al marito, fu usato per compiere un gesto che, nella storia dell’intera umanità, rappresentò l’atrocità più grande, il suo più grave peccato. E’ ancora un “bacio”?
Se al bacio togliamo il suo significato, se lo trasformiamo in strumento di condanna a morte, quale esso fu, mi pare che si potrebbe al più parlare di due labbra che, come si fa in un bacio, si avvicinano a qualcuno. Oggi si dice che la “famiglia” non è solo quella naturale: che la famiglia è anche quella “aperta” o quella formata da coppie omogenitoriali. Il resto è preistoria. Bene, oltre all’inevitabile “come se” di queste estensioni e innovazioni interpretative, visto che nessuno discute sull’origine del concetto di famiglia, mi chiedo se si possa parlare di famiglia quando, invece che il nido preparato per accogliere un nuovo individuo, essa sia solo il provvisorio risultato dell’appagamento di un desiderio individuale. Le tre madri, i due padri e i fratellastri, che i film ci presentano tutti riuniti assieme, a Natale, potranno anche esistere nella realtà, ma come possono essere associati all’idea di una casa, di una stabile origine, del rifugio sicuro di ciascuno?
Come se…
Il messaggio che la coppia che si lascia trasmette – inevitabilmente – al proprio figlio è che egli è frutto di un amore casuale e ormai finito, che solo è venuto al mondo e che solo resterà. Crescendo capirà, ma le tracce del dolore resteranno, dettandone l’insicurezza. Quanto alle coppie omosessuali, poi, l’aneddoto del “bacio” pare ancor più appropriato. L’argomento principale, infatti, invocato per consentire indiscriminatamente l’adozione – e legittimare il libero scambio di sperma, ovuli ed embrioni – è che “i due si amano”, che si vogliono bene. Ma si amano “come se” fossero una famiglia: è questo il limite! Che il rapporto di due persone dello stesso sesso, come quello di due fratelli, possa essere strettissimo e profondo è concetto indiscutibile; ed è anche bello da conoscersi e scoprirsi. L’apparenza, però, non fa la realtà. Portare per sempre le memorie prenatali dell’affetto uterino ricevuto dalla propria madre naturale; avere un colore degli occhi “azzurrissimo”, identico a quello del nonno paterno, sono fatti che nessun neologismo può né potrà smentire.
Privare un bambino, perché le parole si confondono, della propria identità; privarlo, per lo stesso motivo, di quel nido che, anziché sfasciarsi soltanto, come accade nei divorzi, nemmeno si tenta più di costruire, è un’atrocità che non può essere difesa “in nome dell’amore”. Come il “bacio di Giuda”, così una famiglia che con quella naturale condivida solo l’immagine è tradimento e abbandono del “Figlio dell’Uomo”. Guarda caso: espressione che calza a pennello tanto per Cristo, quanto per ognuno di noi.
Marianna Orlandi