C’è la bellezza di una civiltà, del passato ma anche del futuro, con quanto di bello e di buono ne scaturisce per i singoli e per le società, dalle vette dello spirito alle buone relazioni umane, dalle grandi architetture alla vita materiale. E ci sono vite belle attraverso le quali come in un caleidoscopio intravediamo che tutto ciò è stato possibile e lo sarà ancora, sia pure in forme diverse e – perché no? – migliori. «Ciò che fu, ciò che è stato – canto eroico dei Canti, canto sempre cantato» (Giovanni Lindo Ferretti). Erano parole già sentite in modo frammentario, ma non ne avevo mai colto l’insieme, né la portata epica, ignorandone la melodia. Fino al giorno in cui un bardo rimise insieme i frammenti e intonò il canto, quando ero un diciottenne appena sbarcato nel mondo universitario con poche idee e molto confuse. Ebbi modo di ascoltarlo talora di conversare con lui, poi quel bardo speciale partì dopo poco più di tre anni – troppo pochi ma sufficienti affinché il canto si imprimesse nella mia memoria e tuttora continua a risuonare, anche dopo dieci anni dalla sua partenza. L’ultima volta che lo vidi dormiva beato, composto nella chiesetta gotica adagiata sulla riva del fiume, bianca e preziosa come una nave elfica pronta a veleggiare verso le Terre Immortali. Pregavo e piangevo – lo ammetto, un po’ egoisticamente – soprattutto per me, chiedendomi come avrei fatto d’ora in avanti senza il Professore…
La luce dei secoli bui…
Nelle prime settimane da universitario avevo incominciato a seguire il corso di storia medievale del professor Marco Tangheroni. Aveva allora cinquantaquattro anni, per quanto ne dimostrasse di più a causa delle condizioni di salute inequivocabilmente rivelate dal bastone – o dalla stampella, non ricordo – con cui era entrato nell’aula multimediale di Palazzo Ricci. Credo sia stata anche una delle poche “prime lezioni” a non mettermi a disagio, anzi era una piacevole immersione nel Medioevo attraverso i canti della Commedia dantesca, che il Professore conosceva praticamente a memoria, sorridendo compiaciuto nel pronunciare alcuni nomi – per lui ormai familiari – e fermandosi a rievocare le vicende e gli ambienti che quel nome richiamava. Praticamente la fine dei canonici tre quarti d’ora di lezione era un dispiacere, poiché era un racconto vivo e vivace al punto che il narratore doveva essere qualcuno che conosceva non solo le date e i luoghi, gli aspetti economici, politici, le istituzioni del Medioevo, bensì tutte queste cose e molto di più: lui conosceva il segreto di quei “secoli bui” – così ce li ha trasmessi una cattiva propaganda –, secoli a guardar bene sempre meno bui, anzi, con tutti i limiti umani di qualsiasi periodo storico, illuminati da una luce dimenticata che egli andava riscoprendo affinché tutti potessero lasciarsene illuminare: «vengano qui, sulla piazza pisana dei Miracoli, tra cattedrale, battistero, torre pendente, camposanto, e mi dicano se questo è “buio”. Ce ne fossero, oggi, di “tenebre” così!». Quella piazza «esprime compiutamente i caratteri della cultura pisana, profondamente cristiana e insieme mediterranea». È la sintesi e l’espressione architettonica del Medioevo pisano, dalla conquista del mare al sogno imperiale – racchiuso nella tomba di Enrico VII sepolto nella cattedrale, «l’alto Arrigo» invocato da Dante -, fino al tesoro più prezioso: la Madonna di Sotto gli Organi, perché ogni città medievale si poneva sotto il patronato della Vergine – cui del resto fu intitolato il Duomo.
Certo, quel mondo – che, ripetiamo, non era perfetto – è ormai finito, ma si può cominciare a ri-costruire attingendo alla medesima luce cui avevano attinto anche quegli uomini che fecero rifiorire un’Europa di rovine e di foreste e incontrare l’elemento germanico con l’eredità greca e romana, la filosofia e il diritto, dando vita alla civiltà di Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri, di Colombano, di Cirillo e Metodio, di Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi, della bianca veste di cattedrali e della rete di università (che nascevano proprio in quei secoli), della rivoluzione nautica e delle scoperte geografiche. E, diciamolo ancora una volta, di gente che non credeva affatto che la terra fosse piatta… «Quest’ansia della scoperta, questa tensione che è di Ulisse – pensate all’Ulisse di Dante – è un’ansia e una tensione tipicamente europea», spiegava Tangheroni identificandone la radice in «un differente atteggiamento proprio del Cristianesimo (e dell’Occidente in quanto ha le radici proprio nel Cristianesimo) nei confronti della storia e del tempo». Un atteggiamento positivo e ottimistico, dal momento che Dio si è fatto uomo, poiché la luce di cui risplendevano le grandi imprese e le bianche cattedrali «era la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv1, 9). Era Cristo il segreto della Cristianità medievale e di quella nuova Cristianità che forse non vedremo ma per cui vale la pena mettere il nostro piccolo mattone. Ed era anche il segreto di Tangheroni.
Una società a misura d’uomo (e un professore a misura di studente)
Se dovessi indicare una “bella persona” penso che sceglierei proprio lui, dimostrazione vivente di come la bellezza di una personalità non sia ostacolata da una situazione di sofferenza, risultandone anzi esaltata la luminosità, «ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso», diremmo con il “suo” Dante. Ma in fondo quel “di più” che si irradiava dalla sua persona era visibile sin dalla premura nei confronti degli studenti: ero una matricola in piena crisi di “panico da burocrazia”, quando mi dedicò tempo e pazienza, seduto accanto a me su una panchina della facoltà per aiutarmi a compilare il mio piano di studi. Una delicatezza tutt’altro che scontata, ad esempio, per un suo collega che rispose al mio saluto intimando “niente preamboli, non mi faccia perdere tempo”. Allo stesso modo, non credo che molti altri docenti avrebbero manifestato la stessa comprensione del Professor Tangheroni di fronte a una studentessa che, sicuramente preparata ma in preda all’emozione, il giorno dell’esame non ricordava più nulla e scoppiò in lacrime. Altri l’avrebbero bocciata senza troppi problemi, lui cercò di calmarla e le propose di tornare qualche giorno dopo, in uno dei turni successivi di quello stesso appello. Potrei ricordare anche la dedizione con cui talvolta “medicava” la mia ingenuità storica e anche politica, compiendo la seconda opera di misericordia spirituale “insegnare agli ignoranti” – e contestualmente “sopportare le persone moleste”, vista l’insistente stupidità di alcune mie domande, a parziale giustificazione delle quali invoco soltanto la mia verde età di allora. E infine porto scolpita una frase, in risposta ad una mia illusione-disillusione politica: «noi (riferendosi alla sua generazione) non siamo mai rimasti delusi, perché non ci siamo mai illusi». E in effetti, la sua visione sostanzialmente positiva delle cose non si fondava su illusioni, ma su una speranza più alta – e su Colei che è «di speranza fontana vivace».
Questo lo avevo scoperto sin dall’inizio, quando fui invitato ad una riunione di quella che poi divenne la mia “famiglia spirituale”, Alleanza Cattolica, di cui Marco Tangheroni era reggente regionale in Toscana. Le riunioni si tenevano nel suo studio e confesso che avevo qualche titubanza ad andare a casa di un mio docente, ma alla fine mi risolsi. Mi trovai così faccia a faccia con il mio Professore – che in quelle prime settimane avevo visto solo da lontano, alla cattedra -, che guidava la preghiera del Rosario e che, fatte le reciproche presentazioni, fu lieto di sapere che il nuovo arrivato era un suo studente. Proprio in questi giorni Papa Francesco ci invita a domandarci «ma quando è stato il mio incontro con Gesù Cristo, quell’incontro che mi riempì di gioia?». Credo che per me sia accaduto proprio quella sera quando ai miei occhi si schiuse l’insospettata bellezza di militare sotto lo stendardo de Re dei re. Abituato a considerare la pratica religiosa come un “ripiego” per chi non avesse di meglio, o tutt’al più una tassa da pagare di tanto in tanto, la mia “scintilla” scattò vedendo quegli uomini capeggiati dal mio Professore che con la corona tra le mani invocavano la Regina nell’Antica Lingua: Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum… E non si limitavano a invocarLa ma volevano anche servirLa, mettendo a disposizione i loro talenti per ricostruire una civiltà che – come nelle città medievali – la incoronasse di nuovo, affidandosi a Lei nelle grandi istituzioni e nella vita quotidiana, dando vita ad «una società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio», auspicata dall’allora pontefice, il beato Giovanni Paolo II di fronte ad un’Europa che rinnegava le proprie radici cristiane. Il processo, come sappiamo, è andato avanti, proseguendo con la «dittatura del relativismo» denunciata da Benedetto XVI e con la «cultura dello scarto», di cui parla Francesco, rendendo così sempre più urgente il compito di ricostruire – ciascuno nel suo piccolo – una società in cui regnino il bene, il vero, il bello. E di cui, in definitiva, la figura del Professor Tangheroni costituiva già un anticipo, mantenendo accesa la fiaccola della fede, serbando la memoria di ciò che è stato per preparare ciò che verrà: «Oggi, noi cristiani siamo, come i nostri fratelli dei tempi delle invasioni barbariche, chiamati a costruire le cripte sulle quali forse domani altri costruiranno nuove cattedrali». È un’operazione immane, ma siamo fiduciosi di poter chiedere anche il suo aiuto:
Santissima Trinità, Padre e Figlio e Spirito Santo,
Ti ringraziamo per averci donato Marco Tangheroni
come riferimento per la buona battaglia,
modello di cristiana serenità nella sofferenza e nella malattia
che hanno segnato il suo pellegrinaggio terreno,
maestro e amico prezioso nell’edificazione di una nuova civiltà cristiana,
per una società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio,
per il trionfo del Cuore Immacolato di Maria.
Quando era in mezzo a noi ci ha insegnato a vedere la Tua azione amorevole e provvidente
nelle vicende della storia degli uomini,
a cercare la Verità anche quando il mondo sembra avversarla
e ad accettare la realtà di fronte alle opposte tentazioni dell’illusione e dello scoraggiamento.
Attraverso i suoi occhi ci hai rallegrato con un raggio della tua bontà, attraverso la sua mente
ci hai fatto intravedere la Tua sapienza, attraverso il suo cuore abbiamo gioito della Tua carità.
Tu, Signore, hai voluto coronare la sua devozione a Tua Madre
chiamandolo da questa vita nel giorno in cui la invochiamo come Salute degli infermi,
e noi Ti chiediamo questa grazia … per l’intercessione della Vergine Maria
e per le preghiere di Marco,
affinché possiamo glorificarlo anche qui in terra
e lui continui a guidarci dalla cattedra del Cielo. Amen.
Stefano Chiappalone