“È salubre l’aria dell’Agrifogliere: molta malvagità deve colpire una terra, prima che essa dimentichi gli Elfi che la abitarono un tempo” (John R.R.Tolkien)
Una fioritura inattesa, almeno nel nostro emisfero, alle soglie dell’inverno invade vetrine e finestre che si colorano di tutte le sfumature del verde e del rosso, del bianco e dell’oro: sembra che gli angeli siano passati a spargere ghirlande, candele, pigne e bacche, rametti di abete e di agrifoglio, per scaldare i cuori degli uomini man mano che l’inverno prende il sopravvento, in attesa che il candore della neve giunga a completare l’opera invitando gli uomini ad un gioioso silenzio. Persino chi, come il sottoscritto, soffre un po’ di malinconia natalizia, non può fare a meno di restare incantato di fronte a questa sinfonia di colori che colpisce il cuore, mentre la mente di un trentenne tornato bambino immagina paesaggi nordici, caminetti, calze e cristalli di neve e il gioioso affaccendarsi di elfi che costruiscono gli ultimi giocattoli mentre il buon vecchio barbuto prepara le renne – e come dimenticare Rudolph, la renna dal naso rosso? A proposito di naso, qualcuno potrà storcerlo nel leggere questa descrizione che ha poco a che fare con la realtà della Palestina, dove nacque il Signore, o che tutto questo apparato sia solo una deprecabile sovrastruttura commerciale. Ma al di là delle deviazioni commerciali, questa atmosfera “elfica” tipica del Natale ci predispone a farci piccoli ridestando in noi lo stupore sepolto sotto la routine quotidiana ma sempre desideroso di riemergere. Ed ecco che ghirlande e abeti si trasformano in una “sacra soglia” che vorremmo varcare – come l’armadio di Narnia nel romanzo di Clive Staples Lewis – per ritrovare il mondo della nostra infanzia. Non tanto un mondo fatto di cose: il mondo di Babbo Natale, che poi sarebbe San Nicola, più che al collodiano paese dei balocchi rinvia a quello stato di innocenza che il pittore Henri Matisse definiva “ritrovare il clima della nostra prima comunione”. La dimensione fiabesca non toglie nulla al Natale, semmai ci aiuta a viverlo più intensamente. John R.R.Tolkien ci insegna a non guardare con sospetto al mondo delle fiabe, poiché “la malia di Feeria non è fine a se stessa: il suo merito risiede nei suoi effetti, tra i quali va annoverata la soddisfazione di alcuni primordiali desideri umani”. E ancora Tolkien ci illumina sul legame tra le leggende e la Buona Novella: “Il Vangelo non ha abrogato le leggende; le ha santificate…”.
Qualcun altro potrà obiettare che molti usi hanno origini pagane tardivamente rivisti in chiave cristiana. È molto difficile scavare nelle radici della foresta di simboli che costellano il nostro panorama natalizio. Le leggende si intersecano e si confondono, così come le origini cristiane o pagane, di volta in volta attribuite all’albero, al vischio o all’agrifoglio. E se anche fosse, non potremo certo biasimare i pagani per averci tramandato le fronde con cui andare incontro al Signore “Dio, il Signore è nostra luce. Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare” (Sal 118, 27): ben vengano dunque ghirlande e rami di abete per accogliere Colui che viene. Al contrario, si potrà riconoscere nell’apparato simbolico precristiano quell’inconsapevole attesa – un grande, plurimillenario tempo di Avvento – che qualcuno ha voluto ravvisare nel “puer”, il bambino annunciato da Virgilio nelle Bucoliche. Colpisce certamente il riferimento a una Vergine (“Iam redit et virgo”) e ad una progenie che viene dal cielo (“iam nova progenies caelo dimittitur alto”), ma ci limitiamo a notare le coincidenze tra l’attesa certamente viva ma indefinita del mondo romano e ciò che accadde alla periferia dell’impero, regnante Cesare Augusto, quando era governatore della Siria Quirino (cfr. Lc 2,1-2), vale a dire pochi anni dopo la morte di Virgilio.
Quei simboli, pertanto, più che pagani andrebbero definiti “precursori” che ci ricordano il lungo Avvento vissuto da un mondo agitato da una grande domanda che faticava a trovare la risposta; ma anche il nostro personale Avvento, essendo stati tutti un po’ pre-cristiani prima di incontrare Colui che può dar voce alle grandi domande che agitano gli uomini di ogni tempo. Ci aiutano a meravigliarci ancora una volta di fronte alla dolce irruzione del Bambino di Betlemme, che ogni anno ci spinge fuori dai templi costruiti a misura dei nostri idoli e dei nostri limiti, accendendo finalmente di vera luce le deboli fiammelle delle nostre precarie risposte.
Le candele allora brillano più intensamente, i rami di vischio e di abete splendono di un verde mai visto e la neve diviene più preziosa dell’oro. Illuminano i nostri spazi quotidiani fino a rendere liturgico anche lo spazio più domestico e profano. Nessuno si scalda al calore di una candela, né le ghirlande rivestono una funzione materiale: costituiscono piuttosto una profezia e al contempo un richiamo alle aspirazioni più profonde di ciascun uomo. E anche quando abbiamo smesso di credere al vecchio barbuto che porta i doni a bordo di una slitta, non possiamo non vedervi un’immagine della Paternità divina, che apre la sua mano per elargire agli uomini il dono più prezioso: “Lo stesso Cristo è stato un regalo di Natale” (Gilbert Keith Chesterton). Se il presepe è il cuore del Natale, tutto il resto costituisce un annuncio cosmico, quasi un eco del canto degli angeli che a Betlemme proclamavano “una grande gioia, che sarà di tutto il popolo” (Lc 2,10), anzi di tutta la Creazione: “Quando il Dio-Bambino, che nelle sue Manine teneva il Mondo intero, le protese compassionevole alla Madre, terra e cielo si fermarono in somma venerazione. Quando colui che era venuto a scaldare con il suo amore tutte le creature assiderate dal freddo della morte si scaldava al fiato del bue e dell’asino legati nella stalla, anche gli alberi vegliavano” (Pavel A.Florenskij). Le miriadi di decorazioni, persino le vetrine magari allestite da chi festeggia ignorando il Festeggiato, tutte le candele, le ghirlande, l’abete e l’agrifoglio annunciano in ogni angolo delle nostre case e delle nostre strade che “oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore” (Lc 2,10).
Stefano Chiappalone