“La fantasia è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla Ragione, né smussa l’appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione. Al contrario: più acuta e chiara è la ragione, e migliori fantasie produrrà” (JRRT)
L’arte è un linguaggio che ci consente di esprimere l’inesprimibile: il linguaggio comune infatti non riesce a coprire tutto, e anche la descrizione e la parola più precisa lasciano sempre fuori qualche “eccedenza di senso”, quella zona di “mistero” che può essere invece colta e comunicata attraverso le arti – senza peraltro esaurirne la realtà. L’arte si qualifica come tale nella misura in cui essa favorisce il “reincanto” del mondo.
Cosa intendiamo per “reincanto”? Si tratta di recuperare una “visione chiara” delle cose, come eravamo destinati a vederle, “pulire le lenti” appannate dalla condizione post peccatum, ma anche, più banalmente dall’abitudine e recuperare la dimensione dello stupore; accorgerci come Chesterton che dietro la scritta Coffeeroom cui ormai non facevamo più caso, si cela la sconosciuta parola Mooreeffoc. Basta mettersi dall’altra parte della vetrina.
Significa in poche parole allenarsi a vedere ciò che si cela dietro il reale, per poterne cogliere l’essenza: non più solo l’insieme degli elementi chimici che compongono il DNA, ma il mistero cui il loro intimo ordine rinvia, così come i germogli di un albero non possono non rinviare alla Mente che agisce dietro le leggi della natura –cosa che colpì il giovane Avery Dulles (1918-2008), poi convertito, poi cardinale. Tutte le foglie sono uguali eppure tutte diverse e tutte crescono secondo un piano e un ordine prestabilito. Ciò che accomuna la natura (bellezza creata da Dio) e l’arte (bellezza sub-creata dall’uomo) è la percezione del mistero che si manifesta con lo stupore. Stupore perché, magari per la prima volta, scorgiamo in quel fiore, quel volto, quel particolare, quella luce, qualcosa di più di quanto eravamo soliti vedere in essi. Può accadere mediante la contemplazione oppure attraverso l’arte – che è solo un modo di facilitare la contemplazione visibilium omnium et invisibilium (delle cose visibili e invisibili). Questa infatti è vera contemplazione e l’arte è vera arte, solo se ci rende la vista più “acuta”, permettendoci di intuire quel di più che il limitato linguaggio “ordinario” non è in grado di coprire. Altrimenti sarebbe palesemente superflua e non ci direbbe più di un’autopsia o della lista della spesa. In questo senso non si dà mai arte completamente profana, poiché se essa è vera arte non è mai “a cielo chiuso”, essa è sempre un’esperienza di autotrascendenza – «Ragione significa auto-trascendenza, apertura verso la realtà. […] L’apertura completa si chiama amore» (R. Spaemann) – che ci introduce al di là e al di sopra della materialità delle cose o di una soggettiva ed effimera sensazione di piacere, scoprendo che quel reale cui solitamente guardiamo con apatia non è affatto “tutto qui”… Quando saremo in grado di vedere non genericamente cose belle, ma “la” Bellezza nelle cose, ci accorgeremo che gli occhi spalancati dei bambini hanno la vista molto più acuta della nostra, scorgono qualcosa di interessante persino nei petali del fiore, nel volo di un insetto o nel filo d’erba. Gli occhi dei bambini (e non solo gli occhi, visto che afferrano e mordono tutto…) sono letteralmente “affamati di reale” poiché in esso percepiscono quell’eccedenza di significato, quel di più che a noi solitamente sfugge. È anche in questo senso che i puri di cuore vedranno – già vedono – Dio (cfr. Mt 5,8), o almeno le Sue tracce. Comprenderemo allora l’invito evangelico a “tornare bambini” (cfr. Mt 18,3) come anticipo non certo della regressione senile, bensì del recupero di una visione chiara e, in definitiva, della redenzione.
Visibilium omnium et invisibilium. L’arte produce cose inesistenti e pertanto inutili? Hans Sedlmayr definisce l’inconscio il regno «delle potenze della luce e delle tenebre»; ne possiamo dedurre che la fantasia ci introduce in qualche modo al regno delle potenze invisibili, degli spiriti buoni e di quelli diabolici – e talvolta l’artista si lascia ispirare proprio da questi ultimi… Pavel Florenskij afferma la realtà di quanto dipinto nell’icona: «non siete stati voi a creare queste immagini, non siete stati voi a rivelare queste vive idee ai nostri occhi festanti … voi [pittori] vi siete limitati a rimuovere ciò che ce ne velava la luce. Voi ci avete aiutato a liberarci dalle scaglie che coprivano gli occhi dello spirito». L’artista è colui che tira la cortina per svelare a se stesso e a noi una realtà oggettiva che non è stato lui a comporre. «Non a caso le antiche testimonianze chiamano i sommi maestri della pittura d’icone filosofi» , poiché la fantasia – come la liturgia – è, per riprendere il linguaggio di Florenskij, la “porta regale” che permette il passaggio dalle cose visibili a quelle invisibili, la facoltà che ci aiuta ad a percepire il mondo invisibile che ci circonda, quelle «“cose di lassù” che sono in mysterio sostanziosamente presenti e operanti nella nostra esistenza di quaggiù; bisogna solo potenziare gli occhi della fede per percepirle connesse con la nostra vicenda terrena». Non dunque cose inesistenti, bensì l’altra metà del reale cui solitamente non facciamo caso. La fantasia – e di conseguenza l’arte – ci apre alla ragionevole speranza che «i figli di Adamo vivano sul limitare di una festa cosmica di creature felici» (card. Giacomo Biffi), che la nostra vita quotidiana sia in realtà circondata da canti e risa di angeli e arcangeli.
Alla fine tutto sarà redento. Non solo la Creazione vero nomine, di cui noi siamo parte, ma forse anche le opere da noi sub-create non finiranno nel nulla. Tanto grande è la liberalità di quel Dio che «è il Signore degli angeli, degli uomini – e degli elfi», il quale non solo ha santificato la leggenda, ma Egli stesso ne ha realizzata una, con il più bel lieto fine che si potesse immaginare – la Grande Eucatastrofe della Risurrezione –, da poter sperare che alla fine ritroveremo anche le nostre piccole sub-creazioni, poiché «nel regno di Dio, la presenza del massimo non schiaccia il minuscolo» (J. R.R.Tolkien). «Tutte le narrazioni si possono avverare; pure alla fine, redente, possono risultare non meno simili e insieme dissimili dalle forme da noi date loro» (Idem), poiché in fondo non le abbiamo prodotte noi: al contrario, esse ci pre-esistevano e noi le avevamo in qualche intraviste – in modo più o meno nitido ma mai definitivo – al di là della «grigia cortina di pioggia» che ancora ci nasconde la vista di «candide rive e [di] una terra verde al lume dell’alba». Quando rivedremo le nostre opere redente, proveremo lo stesso stupore del pittore Niggle nel racconto di Tolkien: «Tutte le foglie alle quali aveva lavorato erano là, come le aveva immaginate più che fatte; e altre ve n’erano, che erano soltanto germogliate nella sua mente, e molte che avrebbero potuto germogliare, se solo ne avesse avuto il tempo». A noi spetta iniziare, a portare a compimento le nostre piccole e grandi opere ci penserà Colui che ha promesso: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5)