Coloro che posseggono l’innocenza primordiale – i bambini, naturalmente, e chiunque sia riuscito a recuperarla attraverso lo stupore – vede il mondo con occhi diversi perché vive la dimensione ludica, quindi simbolica della realtà. In altre parole riescono a coglierne il “mistero”, gli innumerevoli ponti tra visibile e invisibile, poiché vivono in una condizione di eterno “gioco”, nel senso più alto del termine: non sono mossi dall’efficienza, né dall’interesse, al contrario il loro sguardo è totalmente disinteressato e in quanto tale aperto all’ammirazione di tutto ciò che ai nostri occhi è ormai grigio e privo di attrattiva. Non soltanto perché meno intaccati di condizionamenti post peccatum – e quindi più vicini allo sguardo originario con cui il primo uomo aprì, anzi spalancò gli occhi nel paradiso terrestre – ma anche perché il loro disinteresse apre lo spazio (e il tempo…) per la contemplazione. La bellezza infatti richiede un proprio tempo, la cui misura è prossima all’eternità. Di fronte a qualcosa che ci sorprende, ammirati, è capitato a tutti di esclamare: “starei qui tutta la vita” oppure “starei qui un’eternità”… Non è questione di quanto tempo, ma certamente è necessario tanto tempo. La bellezza, come l’amore, rifiuta calcoli e orologi, e nel momento in cui iniziamo a misurare, l’incantesimo svanisce e il mondo torna a velarsi.
Il mondo moderno sembra nemico della contemplazione perché è amico della frenesia. Se spesso vediamo il mondo grigio, è perché in realtà siamo noi stessi ad essere diventati un po’ come i “signori grigi” del romanzo Momo di Michael Ende: sempre affannati e sempre affamati di tempo, ansiosi di risparmiare ore, minuti, secondi, per poi… risparmiarne ancora di più senza mai fermarsi a goderne. Il giornalista Marco Niada descrive questa vita all’insegna del tempo interrotto, il tempo frantumato, il tempo gonfiato dai ritmi delle società moderne che ignorano i tempi della natura – con aperture notturne e domenicali – all’impiegato perennemente in bilico tra mille impegni, e-mail e telefonate tutti urgenti e tutti improrogabili, fino a sacrificare anche la memoria e la capacità di restare concentrati a lungo: “L’attenzione – scrive Niada – ha ritmi naturali che non possono essere sacrificati alle esigenze di rapidità dell’esecuzione: al contrario più viene interrotta, stimolata in varie direzioni o messa sotto pressione per produrre rapidamente un esito desiderato, peggiore sarà il risultato”. Lo sperimentiamo tutti i giorni quando fatichiamo a tenerci concentrati nel profluvio di informazioni e comunicazioni che, quale effetto collaterale della tecnologia, ci ingolfa la mente e per un attimo ci chiediamo: “ma ti ricordi come era il mondo prima di internet?”. A dire il vero, non me lo ricordo (anche la mia memoria va peggiorando, di pari passo con la capacità di concentrarmi a scrivere questo breve articolo), ricordo solo che in quel tempo avevo una memoria visiva spettacolare e adesso devo fare uno sforzo per riuscire a finire un libro. Memorizzavo dettagli anche insignificanti di un quadro o di un paesaggio e adesso dopo qualche secondo devo ricordarmi di continuare a fissare lo sguardo. Un mondo impaziente infatti non è un più efficiente, ma solo più distratto, come testimonia Jonah Lynch, dandoci il benvenuto nel mondo del multitasking: “Fare più cose allo stesso tempo è molto stimolante – aumenta il livello di attenzione, il corpo diventa tutt’uno con la tastiera del computer, o con l’automobile che si sta guidando mentre si parla al telefono. […] Ma questo tipo di attenzione è assai diverso da quello della ‘lettura profonda’, e tende a ridurre la capacità di concentrazione”, come accaduto allo stesso Lynch, ex “nerd” (pentito?) e ora rettore del seminario della Fraternità San Carlo: “Leggendo il breviario, trovavo che gli occhi volavano veloci sulle parole, spesso senza ricordare nulla un minuto dopo. Leggevo i testi della Bibbia come leggevo i libri scolastici, come leggevo il sito del New York Time o il Corriere, come guardavo 24. Restavo in superficie, cercando le parole più utili o le scene più emozionanti. Ogni pausa, ogni respiro, ogni congiunzione, li sentivo come un vuoto da eliminare. Stavo perdendo la capacità di contemplare, di leggere profondamente, di commuovermi per le sfumature”.
Questa frenesia che ci impedisce di godere la bellezza è in primo luogo interiore: spesso non ci fermiamo per il semplice motivo che temiamo di doverci arrendere al silenzio. Il monaco benedettino Michael Casey spiega che «alcuni uomini hanno paura del silenzio, così come i bambini hanno paura del buio». Anche quando ci fermiamo siamo alla ricerca sistematica di stimolazioni sensoriali (la tv perennemente accesa, il continuo sottofondo musicale in tutti i locali, le casse ad alto volume che durante una cena al ristorante ci costringono a gridare), indotti da una specie di horror vacui a chiudere ermeticamente qualsiasi spazio di silenzio esteriore e interiore. «L’anima scoppierebbe – osserva Gustave Thibon – se dovesse reagire profondamente a ciascuna di queste sollecitazioni. Istintivamente […] essa livella e automatizza le proprie reazioni», fino a subire, per paradossale autodifesa, un’anestesia delle emozioni sconosciuta invece alle generazioni che ci hanno preceduto: «Si pensi ad esempio alle prime emozioni di chi pilota un’automobile o un aeroplano. Ma, per gustare tali emozioni, per rispondere umanamente agli eccitanti artificiali, occorre possedere un capitale vergine di vita cosmica – quelle vaste riserve di freschezza e di profondità create nell’anima dalla stretta comunione con la natura, dalla familiarità con il silenzio, dall’abitudine alle quiete cadenze di un’attività accordata ai ritmi primordiali dell’esistenza. I primi contatti dei contadini con le meraviglie della tecnica (elettricità, automobile, cinema, ecc.) sono circonfusi di un’ebbrezza che chi è abituato alla civiltà non è più neppure capace di concepire. La risonanza è profonda perché l’anima non è ingombrata». Non a caso Plinio Correa de Oliveira, nelle sue conversazioni sulla bellezza dedica alcuni passaggi alla calma, che non è distensione o, peggio ancora, distrazione, anzi è il sano equilibrio di tutte le facoltà interiori di fronte all’oggetto della contemplazione. «La calma è il maggior piacere della vita. Chi non l’ha capito non ha capito nulla: non sa vivere». E aggiungiamo: non sa gustare, non sa contemplare, non sa ammirare. Almeno finché non si arrende al tempo della bellezza, che è un tempo «altro» come quello della liturgia, in cui il «nostro» tempo di urgenze e scadenze deve necessariamente essere sospeso, in un movimento a spirale – sempre lo stesso e sempre nuovo – come quello dell’anno liturgico o del ciclo delle stagioni: può valere per un paesaggio, per un’opera d’arte, persino per le opere della tecnica, ogni volta che ci fermiamo abbandonandoci alla continua scoperta di qualcosa che credevamo già noto e invece ad ogni nuovo sguardo – ma solo se abbiamo uno «sguardo nuovo» – ci rivela nuovi dettagli e meraviglie insospettate, come una persona che ci attrae sempre di più man mano che la conosciamo.
Come abbiamo visto, non è (solo) questione di cosa contempliamo, ma prima di tutto di sgombrare l’anima, di risvegliare in noi – come la cattedrale sommersa dalle acque della leggenda bretone – «quelle vaste riserve di freschezza e di profondità», di cui parla Thibon. Arrenderci al tempo della bellezza può aiutarci a «guarire» e restituirci una dimensione più umana nella misura in cui tutta la nostra vita, liberata dalla consueta «compressione», può godere di quella medesima ariosità che p. Cassingena Trévedy attribuisce alla liturgia: «Diamo alla liturgia tutto lo spazio e il tempo di cui ha bisogno. […] Tutta la liturgia sta in questo va e vieni, in questo spazio aerato, questo respiro, questo interstizio dove si intrufolano gli angeli».