È un tribunale spagnolo, l’Audiencia Nacional di Madrid, che il 18 Novembre ha spiccato ordini di arresto internazionali contro 5 dirigenti cinesi, Jiang Zemin, Li Peng, Qiao Shi, Chen Kuiyuan, Peng Pelyun accusati di genocidio, crimini contro l’umanità, tortura e terrorismo in Tibet, reati riferiti agli anni ’80 e ’90; lo stesso tribunale ha anche aperto un’inchiesta contro l’ex presidente Hu Jintao, segretario del Partito in Tibet alla fine degli anni ’80, accusato di essere il diretto responsabile per la morte di 500 persone.
Il tribunale spagnolo ha potuto aprire le inchieste sulla base delle denunce presentate da un gruppo di attivisti per la difesa dei diritti umani in Tibet, tra i quali vi è un tibetano in esilio con cittadinanza spagnola. Il Tribunale ha emesso i mandati di arresto basandosi sul principio della giurisdizione universale, secondo cui i casi legati ai diritti umani (tortura, terrorismo, crimini contro l’umanità) possono essere perseguiti oltre il confine nazionale.
L’International Campaign for Tibet, un’associazione con base a Washington, ha dichiarato “nessuno dei leader nominati… correrà il rischio di viaggiare all’estero, perché potrebbero essere arrestati e interrogati…. Per tutti loro vi è la possibilità che i loro conti bancari all’estero vengano congelati”. Sarà dunque difficile poter eseguire fisicamente i mandati di arresto, ma questi restano comunque un monito per chi offende i diritti umani.
I dirigenti cinesi sono stati riconosciuti colpevoli di azioni volte “a eliminare l’esistenza” del Tibet (l’enormità di questa affermazione fa raggelare il sangue e ricorda sin troppo bene un altro episodio della storia), attraverso metodi quali l’imposizione della legge marziale, la deportazione forzata della popolazione, “l’eliminazione progressiva della popolazione autoctona”. Negli atti del processo viene descritta la repressione militare e di polizia in Tibet negli anni dall’87 all’89 e la politica di imposizione di aborti (anche a gravidanza avanzata e con metodi atroci) e sterilizzazione forzata. “È stata provata la diretta responsabilità degli accusati per crimini commessi nell’esercizio delle loro funzioni”.
Ma chi sono gli accusati?
Jiang Zemin, è un ex presidente cinese, segretario del Partito Comunista e leader supremo dell’armata di liberazione; i reati a lui imputati risalgono al periodo immediatamente successivo il massacro di Tienanmen, quando nel Giugno 1989 venne nominato Segretario Generale del Partito Comunista e Presidente del Comitato Militare Centrale.
Li Peng (il “macellaio di Tienanmen”), premier durante i periodi di repressione tibetana, nel 1990 dichiarò ufficialmente che “le politiche di pianificazione familiare in Tibet non dovevano essere solo quantitative, ma anche ‘qualitative’”, e che “il controllo delle nascite doveva essere applicato per migliorare la qualità della popolazione e non solo limitarne il numero di nati”.
Qiao Shi è stato capo della sicurezza e leader della Polizia Armata durante la repressione e il periodo della legge marziale in Tibet, alla fine degli anni ’80; sebbene sia noto per la terribile repressione in tutta la Cina dopo il massacro di Tienanmen nel giugno dell’89, quasi un anno prima aveva già avuto modo di palesare la sua crudeltà verso i dimostranti tibetani a Lhasa, che aveva etichettato come “ribelli”, e contro i quali aveva adottato una “politica di repressione senza pietà”.
Chen Kuiyuan è stato segretario del Partito in Tibet dal 1992 al 2001: sotto di lui le sparizioni crebbero enormemente dopo i cambiamenti apportati nell’amministrazione penitenziaria nel 1994. Egli definì il buddismo la fonte di tutte le attività separatiste, incitate dal Dalai Lama, e dichiarò che i monaci che non si fossero “adattati” alla “religione socialista” sarebbero stati puniti severamente.
Peng Pelyun (conosciuta anche come Deng Pelyun), ministro del family planning negli anni ’90, accusata di aver imposto le politiche del figlio unico in Tibet, non al fine di ridurne la sovrappopolazione come in Cina, ma semplicemente volte a ridurre la popolazione tibetana come specifico gruppo etnico e religioso.
La corte nazionale spagnola ha anche deciso di aprire un’inchiesta per verificare le accuse di genocidio contro l’ex presidente Hu Jintao, segretario generale del Tibet fra il 1988 e il 1992, colpevole di aver ordinato un massacro “fuori da ogni regola giuridica” contro i tibetani coinvolti nelle proteste del 1989, dove morirono circa 500 persone. La “personalità” di Hu Jintao emerge direttamente, tra l’altro, da un suo telegramma indirizzato all’allora presidente Deng Xiaoping, nel quale si congratulava per la “saggia decisione” di mandare i carri armati in piazza Tienanmen.
Un Paese violentato
Ma, sebbene questa sentenza possa rappresentare un piccolo passo in avanti in quanto un tribunale condanna espressamente con una sentenza autori di massacri e di violenze inflitte alla popolazione inerme, e potrebbe rappresentare un invito a una presa di posizione chiara contro crimini e criminali anche da parte degli altri Paesi (anche se i criminali, molto probabilmente, non verranno mai arrestati), le grandi sofferenze del popolo tibetano non sono purtroppo limitate al solo periodo in cui hanno governato (o meglio dire tiranneggiato) questi “capi”; il Tibet, che per quasi duemila anni era esistito come nazione sovrana, ha alle spalle un lungo periodo di sofferenza, iniziato nel 1950 con l’invasione del Tibet per mano cinese.
L’occupazione cinese è stata la causa di morte, ad oggi, di 1 milione e duecentomila tibetani, diretta conseguenza della persecuzione religiosa e politica, degli arresti, della detenzione in campi di lavoro forzato (dove la tortura è pratica comune). Almeno 85.000 tibetani sono fuggiti dal loro Paese. La sola insurrezione nazionale tibetana del 1959, soffocata con la violenza e la repressione, ha lasciato dietro di sé 87.000 vittime nel solo Tibet centrale.
Oltre 6.000 monasteri sono stati distrutti per mano dei rivoluzionari cinesi, che organizzarono vere e proprie campagne di vandalismo per distruggere edifici sacri e altri luoghi simbolo della millenaria cultura tibetana, le loro opere d’arte; le statue d’oro sono state fuse e trasformate in lingotti trasportati a Pechino. Il Dalai Lama (unico capo politico e spirituale riconosciuto dai tibetani) vive in esilio in India da più di 50 anni. La Cina, naturalmente, proibisce l’insegnamento e lo studio del Buddhismo; finti monaci popolano finti monasteri a beneficio dei turisti, mentre i veri monaci e monache vengono espulsi, maltrattati e imprigionati, costretti a sottostare a sessioni di rieducazione patriottica, a denunciare il Dalai Lama e a dichiarare obbedienza al Partito comunista.
Secondo il Dalai Lama “in Tibet sta avvenendo un genocidio culturale non preso in considerazione dal mondo occidentale”. Andre Alexander, fondatore del THF, patrimonio del Fondo tibetano, ha dichiarato: “Dal 1993 si ha una media di 35 edifici storici distrutti all’anno”, pretesto per “pulire, cancellare, trasformare e modernizzare”.
Ma perché la Cina vuole il Tibet a tutti i costi?
Minerali preziosi quali oro, litio, cromite, rame, borace, ferro; i maggiori giacimenti d’uranio del mondo (la metà delle riserve di uranio della terra si trova nelle montagne attorno a Lhasa); giacimenti di petrolio (la regione dell’Amdo consente l’estrazione annuale di più di un milione di tonnellate di greggio); posizione strategica tra Cina e India, i due Paesi più popolosi del mondo, economie in forte crescita; possibilità di controllo di immense riserve idriche (il Tibet è la regione dove nascono i più grandi fiumi dell’Asia, riserve d’acqua vitali per tutto il continente); enormi distese di foreste (e quindi enormi quantità di legname).
Lentamente e inesorabilmente il Tibet viene occupato dalla popolazione cinese, introdotta dal governo di Pechino sin dagli anni ’50 per “nazionalizzare la regione”, e agevolata in questa occupazione dalla costruzione di apposite ferrovie e strade. I tibetani e la loro cultura sono oggi una minoranza nel proprio Paese.
Il Tibet è oggi una regione altamente militarizzata che ospita buona parte della forza missilistica nucleare cinese. Le scorie radioattive nella zona del Lago Kokonor, il più grande lago dell’altopiano tibetano, sono causa di morte o di gravi malattie che colpiscono la popolazione che vive vicino alle basi atomiche, con un alto tasso di percentuali di nascite di bambini deformi.
Le quotidiane auto-immolazioni, che ancora oggi avvengono (negli ultimi mesi sono stati più di 120 i casi riportati dalle nostre cronache di tibetani che si sono dati fuoco per protesta), spesso rese invisibili dal regime di Pechino, sono segno che il Tibet vive ancora oggi una situazione di occupazione illegale, dove le principali libertà e la dignità umana vengono negate e calpestate davanti agli occhi di tutti, dove un popolo è trattato da schiavo nella propria Patria, dove si cerca di cancellare la memoria e l’identità di un intero popolo, senza però che i governi degli altri Paesi osino alzare la voce contro questi crimini, a causa degli enormi interessi commerciali che li legano alla Cina.
Riflettendo su tutto questo, non posso non pensare alle parole di Papa Francesco in occasione della veglia di preghiera per la pace del 7 settembre scorso: «Dov’è Abele tuo fratello?». E Caino risponde: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). Anche a noi è rivolta questa domanda e anche a noi farà bene chiederci: Sono forse io il custode di mio fratello? Sì, tu sei custode di tuo fratello! Essere persona umana significa essere custodi gli uni degli altri! Questo, a maggior ragione, dovrebbe essere il pensiero di chi governa le nazioni, insieme alla grande responsabilità che ne deriva.
“Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ricordava Benedetto XVI, nel discorso al Bundestag tedesco, citando Sant’Agostino.
Il monito del Papa, non solo ci deve portare a riflettere sulle scelte etiche dei nostri governi, ma anche sulle nostre, e di conseguenza a verificare quotidianamente la nostra fede, affinché il nostro contributo possa tornare ad essere decisivo nella trasformazione della cultura e quindi della storia del nostro tempo.
Scritto da Roberta Romanello
Fonti: ANSA; ICT International Campaign for Tibet (www.savetibet.org); Associazione Italia-Tibet (www.italiatibet.org); ASIANEWS (www.asianews.it); LAOGAI Italian Research Foundation Onlus (www.laogai.it).