«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9,1).
L’innocenza perduta
Per quanto io non non abbia nulla contro l’albero di Natale – alla cui simbologia di luce divina ci hanno peraltro richiamato gli ultimi pontefici – ho sempre considerato quest’ultimo un di più, poiché il vero cuore del Natale era, ed è tuttora la Natività. Non solo per la ragione che il festeggiato è un bambino, anzi «quel» Bambino, ma anche per ragioni «minori» e tuttavia non trascurabili, a partire dalla maggiore dose di creatività richiesta a chi fa un presepe rispetto a chi addobba un albero. È un fatto curioso che a Natale anche chi non ha particolari doti artistiche si sforzi di creare un piccolo capolavoro, come se l’incanto della grotta di Betlemme ci facesse diventare tutti artisti – e una volta terminato tutti bambini, intenti ad ammirare il piccolo capolavoro di luci, muschio, carta e statuine. Di fatto, anche il presepe è una di quelle campane i cui rintocchi fanno riemergere la cathedrale engloutie dell’innocenza perduta.
E in questi giorni mi rivedo bambino di pochi anni di fronte al mio primo presepe (o almeno al primo che io ricordi), con una capanna coperta di neve e decorata da due (o tre?) grandi abeti, anch’essi imbiancati, aperta sul davanti a lasciar vedere i sacri protagonisti: Maria, giovane e bella, con espressione seria e le braccia allargate, vestita di rosso con un manto blu; Giuseppe, con una tunica grigio azzurrina e il manto scuro, l’espressione pacata e sicura, il bastone a indicare autorità più che anzianità – ma chi l’ha detto che san Giuseppe era decrepito? – e in effetti il volto è quello di un uomo maturo ma ancora giovane; e il piccolo Gesù coperto solo da piccolo panno (come quando salirà sulla croce) che agita braccia e gambe in una culla dorata come un’ostensorio, riscaldato da un bue e un asino. Il tutto corredato ovviamente dai Magi (a piedi, ma io puntavo a quelli cammellomuniti) e un pastorello con una pecora in spalla che mi faceva pensare alla parabola della pecorella smarrita – a dire il vero un po’ anacronistica dal momento che il divino predicatore giaceva ancora neonato. È la prima scena che ricordo del Natale, un ricordo primo e primordiale, di quelli che ti scavano un promemoria indelebile nel libro della vita.
Gesù e Babbo Natale
Nel mare dei «ricordi primordiali» affiorano poi altri presepi: quello della chiesa parrocchiale, con le statue grandi, l’acqua corrente e le lampade che simulavano il fuoco; il presepe meccanico visto in una chiesa, chissà quando e chissà dove, ricordo solo vagamente la mia mano minuscola nella mano di mia madre, e la barba del frate che custodiva il capolavoro. Toccai il cielo con un dito poi quando mio padre mi svelò un tesoro insospettato: il suo presepe di quando era bambino, risalente quindi (presumo) agli anni Cinquanta, composto da una schiera di statuine di gesso che messe in fila sembravano l’Esercito di terracotta cinese. C’era a disposizione ogni categoria (doppioni inclusi), dai pastori, agli zampognari, al pescatore, senza contare la fauna: il bue e l’asinello, disponibili in più versioni, gli imponenti cammelli dei Magi, persino un elefante, ma soprattutto una miriade di pecore, molte delle quali regolarmente prive di una zampa che un folto strato di muschio avrebbe contribuito ad occultare. Tutti questi ricordi erano incentrati su quel Bambino che veniva svelato sopra l’altare durante la Messa di mezzanotte, in un tripudio di campanelli, luci e incenso. Quella mangiatoia che fece irruzione alle soglie dell’età della ragione continua ad allargarmi il cuore persino ora che, giunto alle soglie dell’età della stempiatura, una sottile vena di pessimismo e malinconia mi impedisce di godermi appieno le feste.
Da bambino mi attraeva tutto ciò che ruotava intorno al Natale, Babbo Natale incluso, che peraltro sarebbe san Nicola – questo lo scoprii molto tempo dopo, comunque sia non li ho mai visti in contrapposizione, considerando il vegliardo nordico come un “emissario” del Bambino di Betlemme. Piuttosto possiamo dire che credevo nell’esistenza del primo nella misura in cui credevo nel secondo. Vero o falso che fosse, sono grato al vecchio con le renne per avermi tenuto desto un campanellino sul soprannaturale, abituandomi a pensare che rifiutare a priori l’esistenza di qualcuno per il semplice fatto che non lo vediamo, oltre ad essere poco educato è anche poco ragionevole. Ricordo violente dispute con bambini scettici impegnati a dimostrare che a portare i doni natalizi erano i genitori, mica Babbo Natale (che io difendevo a spada tratta): dopo molti anni l’ardore delle polemiche si è spento e devo ammettere che io avevo torto su questo punto, tanto quanto loro, più tardi, avrebbero avuto torto a smettere di credere anche in Gesù Bambino. Per me in fondo, cambiava poco: potevo anche perdere tutto il corteo di renne, elfi e slitte, ma quella mangiatoia restava piantata saldamente al cuore del Natale, di tutti i Natali che furono e che saranno.
La perdita del centro
Persino negli anni della miscredenza adolescenziale il presepe continuava ad attrarmi e, paradossalmente, più perdevo interesse per la fede e più mi ingegnavo a escogitare nuovi artifici per il capolavoro natalizio. Le lampadine per simulare il fuoco ormai si trovavano negli scaffali di qualsiasi supermercato, una piccola pompa per tergicristalli, recuperata dal meccanico, mi permetteva di creare cascate e fontane vere con l’acqua corrente – e contestualmente di allagare la casa -, mentre per il cielo puntavo a un effetto più realistico della «banale» carta stellata, ottenendo uno sfondo quasi naturale illuminando dal basso un cartoncino celeste. Una volta progettai persino un complicato carosello di angeli sospesi in aria, azionati da un carillon che dopo pochi tentativi passò a miglior vita. Il fiore all’occhiello fu però la costruzione del plastico in polistirolo, intagliando minuziosamente le pietre, i mattoni e le asperità dei muri, dipingendo tutte le sfumature di un edificio antico, dal grigio, al marrone, fino ai toni verdastri del muschio che si insinua tra pietra e pietra. Questa febbrile successione di innovazioni, sempre alla ricerca dell’effetto più interessante e più sorprendente, giunse al culmine – e al termine – quando iniziai a ideare delle statue più grandi, perché ovviamente neanche quelle mi bastavano più. Avevo avviato già a gennaio per il dicembre successivo una serie di disegni preparatori per le statue, che rimasero sulla carta perché a tutto c’è un limite, anche alla «libido» creativa. Non era certo colpa delle statue grandi, del fuoco, dell’acqua corrente e tante altre cose che mi affascinavano già da piccolo e continuano a farlo ora. Il problema non risiedeva nel voler fare questo o quello, ma proprio nel voler fare: fare, fare, fare, ma senza mai fermarsi a contemplare. Ipertrofia delle mani e del cervello, atrofia degli occhi e del cuore. Mettendo al centro la mia abilità invece del Protagonista, sperimentai nel mio piccolo quella «perdita del centro» che per Hans Sedlmayr è alla base di certa arte moderna che oscilla tra il culto dell’arte per l’arte, e i poli opposti di un funzionalismo esasperato o di una sistematica ricerca dell’assurdo, dal culto della tecnica al rifiuto della logica. Nell’analisi di Sedlmayr la perdita del centro nell’arte corrisponde alla perdita di Colui che è il centro, il Dio-uomo, rifiutando il quale l’uomo stesso finisce per smarrire la propria vera immagine, dilaniato dal prevalere, di volta in volta, della dimensione razionalista o irrazionale, senza che mai i due estremi ritrovino l’equilibrio, e in tutti i casi homo faber fortunae (o sfortunae?) suae… Una cosa simile era accaduta a me che, troppo impegnato a trasformare il presepe in un laboratorio finii per smarrirne il centro, quasi che quella mangiatoia fosse divenuta funzionale a tutto ciò che vi costruivo intorno, e non viceversa – così come per molti il Natale è divenuto un buon pretesto per cenoni e ferie e nulla più -, rischiando di diventare solo un particolare tra i tanti.
Memoria futuri
Rifletto su tutto questo, sul bimbo che fui, sull’adolescente che diventai e sull’uomo che sono (o che spero di essere), di fronte al Bambino che era, che è e che viene. Lo vedo qui nella mia casa, in una grotta dall’ingresso rotondo, scavata sotto una collina di carta e muschio, vegliato dalla Madre e da Giuseppe, scaldato dal bue e dall’asino. Fuori pochi animali e ancor meno persone, in uno piccolo spazio simmetrico che impedisce di smarrire la strada e di «perdere il centro»: stavolta lo sguardo converge subito su quel piccolo ostensorio di paglia da cui eravamo partiti, con lo stesso Bambino che vi si agita dentro. Anche le statuine sono le medesime e, in fondo, anche il bambino che le dispone e poi le guarda ammirato è il medesimo, solo con quasi trent’anni di più. Allora provava lo stupore dell’innocenza, adesso prova nostalgia dell’innocenza originaria. Non è nostalgia del passato, bensì dell’eterno: è memoria futuri, «capace di aprire al futuro, di illuminare i passi lungo la via» e in quanto tale «strettamente legata alla speranza» (Lumen Fidei,9), al ritorno più che al rimpianto poiché, ci assicura Plinio Correa de Oliveira, «questo paradiso non ha rotto con noi e ad ogni momento bussa alla nostra porta». Ne abbiamo un bisogno vitale, persino quando crediamo di possedere, potere, sapere tutto: «anche un esistenza colma di gratificazioni può fomentare un disagio profondo, generare il vuoto. […] C’è un’infinitesimale parte di ogni essere che anela ad altro, ad una compiutezza che non possiede ma di cui percepisce mancanza» (Giovanni Lindo Ferretti). Per colmare questo vuoto e ritrovare l’Eden primordiale non c’è che una via: per guardare in alto bisogna chinarsi in basso e varcare la piccola porta di una piccola grotta, dove giace il Piccolo Re. Per entrarvi bisogna scavare molto, non nella grotta, bensì in noi stessi, e una volta entrati fare scorta di quella luce più abbagliante dell’oro in cui hanno intinto il pennello gli artisti del Medioevo – guarda caso l’epoca che ha «inventato» il presepe per mano di san Francesco – le cui opere ancora riscaldano i nostri occhi (e il nostro cuore) con le loro Madonne dolcissime, sfondi dorati, fiori e foglie incastonati come pietre preziose nei verdi giardini calpestati da cortei di angeli e santi, e quel blu insieme profondo e delicato di tanti affreschi, arioso e illuminato come le vetrate delle cattedrali. Tanto splendore ci attende, anche quando il Natale sarà passato, in quella grotta che, in realtà, non sta sotto la terra ma sopra di essa e si affaccia sul cielo. Da lì la nostra vista – abituata a malapena alle luminarie natalizie dei centri commerciali – tornerà a godere del blu e dell’oro, del verde e del rosso, di tutte le tonalità della primavera, dell’estate e delle stagioni che verranno, di tutte le sfumature della vita, perché «alla Tua luce vediamo la luce» (Sal 36,10).