Care amiche, cari amici
La questione dell’educazione e della possibilità di scegliere liberamente la scuola cui mandare i figli è una piaga sempre aperta per le famiglie italiane. Come sappiamo, si tratta di uno dei “princìpi non negoziabili”, dopo il diritto alla vita e la centralità della famiglia fondata sul matrimonio indissolubile fra un uomo e una donna. È conosciuta come “libertà di educazione” grazie a una felice campagna di sensibilizzazione promossa circa 20 anni fa, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, dal settimanale il Sabato e da diversi movimenti e associazioni, fra cui Comunione e Liberazione e l’Agesc, l’associazione dei genitori delle scuole cattoliche.
La richiesta delle famiglie di poter scegliere senza aggravi economici la scuola dove fare studiare i figli non ha mai sortito reali effetti politici, se non l’introduzione del buono-scuola in alcune regioni governate dalle forze politiche del centro-destra, una specie di rimborso parziale che la Regione offre alla famiglia che ha dovuto pagare una retta alla scuola non statale dove ha scelto di fare studiare i propri figli. La riflessione più sconcertante è che questa libertà di scelta per le famiglie non è mai stata introdotta durante la Prima repubblica, a fronte di ministri della pubblica istruzione che erano esponenti della Democrazia Cristiana e all’esistenza di un forte partito di maggioranza relativa cosiddetto di ispirazione cristiana. Si preferiva fare arrivare soldi alle scuole cattoliche (non molti) invece che affermare il principio che il Magistero della Chiesa stabilisce il diritto (e dovere) dei genitori di scegliere dove e come educare i propri figli senza aggravio di spese. Oltretutto, con la consapevolezza che ogni alunno che passasse dalla scuola statale a quella pubblica ma non statale, farebbe risparmiare molti soldi allo Stato. Pensate soltanto a cosa potrebbe voler dire se lo Stato potesse uscire di scena nella gestione scolastica facendo così diminuire drasticamente il proprio deficit di bilancio e se conseguentemente le scuole potessero venire promosse da famiglie, parrocchie, società religiose, ecc., aiutate magari dallo Stato, ma non appartenenti allo Stato.
Oggi siamo sostanzialmente in una situazione di stallo. Si preferisce parlare di cose pure importanti, come la crisi economica o la legge elettorale, ma ci si dimentica di questi aspetti di giustizia che sono fondamentali.
Qualcosa potrebbe risvegliarsi, dal punto di vista almeno dell’attenzione del popolo cattolico e dei media, in previsione dell’evento indetto dalla Chiesa italiana per sabato 10 maggio a Roma in piazza San Pietro, dove si terrà alla presenza del Papa una pubblica manifestazione a favore della scuola libera (posso chiamarla così?, chiedo agli esperti).
Intanto, il Presidente della Conferenza episcopale, card. Angelo Bagnasco, ha pronunciato parole che dobbiamo riprendere e non lasciar cadere, soprattutto nell’ottica di sensibilizzare i genitori, i docenti, i presidi e chiunque si occupa di educazione:
«A questo proposito, non possiamo – per ragioni di giustizia – non rilevare ancora una volta la grave discriminazione per cui, nel nostro Paese, da un lato si riconosce la libertà educativa dei genitori, e dall’altro la si nega nei fatti, costringendoli ad affrontare pesi economici supplementari. In questa sede vogliamo ringraziare pubblicamente e confermare la nostra crescente stima verso le comunità cristiane e gli Istituti religiosi che resistono con altissimi sacrifici per non chiudere le loro scuole, spesso anche di grande prestigio storico e culturale. Ogni anno, chiudere delle scuole cattoliche – di qualunque ordine e grado – rappresenta un documentato aggravio sul bilancio dello Stato, un irrimediabile impoverimento della società e della cultura, e viene meno un necessario servizio alle famiglie». (Prolusione del 27 gennaio)
Parole che sarebbe bene venissero ripetute nelle omelie, in conferenze pubbliche nelle parrocchie, presso associazioni e movimenti. Spesso ci lamentiamo perché i Pastori non parlano chiaro, ma quando lo fanno capita che vengano lasciati da soli.
Marco Invernizzi