Vittorio Messori scriveva che quando vede una chiesa moderna entra e prega Dio di perdonare l’architetto. E’ quello che ho pensato dopo avere visto la chiesa dell’Ospedale San Carlo di Milano, progettata e realizzata dall’architetto Gio Ponti negli anni Sessanta.
La frequentazione di un ospedale porta spontaneamente a cercare un luogo dove c’è Gesù presente nel SS. Sacramento, per rivolgere una preghiera a Colui che curava «ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo» (Matteo 4,23). Ma terminata la mia preghiera, la visita della chiesa di Gio Ponti mi ha suscitato anche qualche considerazione sull’arte sacra e su quello che dovrebbe trasmettere.
La chiesa è progettata prendendo a modello una nave, l’interno rappresenta un ponte con i due “castelli” di prua e di poppa. E’ realizzata in cemento armato, materiale non particolarmente leggiadro. E’ spoglia, austera.
Ma sono rimasta colpita da un particolare: sulla parete dietro l’altare si legge la preghiera del Pater noster, realizzata in enormi lettere di lamina metallica. La stessa tecnica è usata per la Via Crucis: sui pilastri lungo le pareti laterali vi sono non le consuete immagini delle Stazioni della pia pratica, ma le parole. In riquadri di metallo sono contenute le scritte anche’esse in lettere metalliche: “Gesù è condannato a morte”; “Gesù cade per la prima volta”, ecc.
Perché questa scelta? Perché non ci sono immagini di arte figurativa, magari anche moderna, che rappresentano le scene del Calvario?
Trovo la risposta in un opuscolo che spiega le scelte architettoniche e artistiche di Ponti: la Via Crucis non è più «raccontata con la “Bibbia dei poveri” analfabeti, per Stazioni figurate, ma con parole: tutte da leggere, per dei fedeli finalmente alfabetizzati. E se questa chiesa è ecumenicamente spoglia d’immagini, assente la pittura, ciò è da mettere in relazione anche a tale emancipazione e al fatto che il suo spazio è già in grado da solo di esaltare la figura di chi è presente e vi celebra il rito cristiano, forse più di una monumentale tela dipinta del XVII secolo, borromaica e controriformata». (Maurizio Medaglia).
Scelta discutibile, per usare un eufemismo. I fedeli del XXI secolo, che sanno leggere e scrivere, non hanno più bisogno dell’immagine? Davvero curiosa come affermazione, in una società che viene definita come la società dell’immagine.
Considerando poi che nell’ospedale San Carlo ho visto pazienti di diverse etnie, lingue e razze, bisognerebbe scrivere quei testi in tutte le lingue del mondo, e non solo in italiano.
Ma a parte questo dettaglio, davvero i fedeli alfabetizzati non hanno più bisogno dell’immagine?
Prendete in mano il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica: noterete che vi sono delle immagini. Esse sono parte integrante del volume. E’ una caratteristica voluta fortemente dal Cardinale Ratzinger, nella sua veste di Presidente della Commissione speciale preparatoria del Compendio, motivata così: «Anche l’immagine è predicazione evangelica. Gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza. E’ un indizio questo, di come oggi più che mai, nella civiltà dell’immagine, l’immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico».
Quanta emozione suscitano gli affreschi, le pale d’altare, le icone; trasmettono un messaggio davvero universale.
Nel documento “La Via pulchritudinis, Cammino privilegiato di evangelizzazione e di dialogo”, del Pontificio Consiglio per la Cultura leggiamo: « Il forte potere di comunicare, dell’arte sacra, rende quest’ultima capace di oltrepassare le barriere e i filtri dei pregiudizi per raggiungere il cuore degli uomini e delle donne di altre culture e religioni, e dar loro modo di cogliere l’universalità del messaggio di Cristo e del suo Vangelo. […] Rivolgendosi agli artisti nella Cappella Sistina, il 7 maggio 1964, il Papa Paolo VI denunciava il «divorzio» tra l’arte e il sacro, caratteristico del XX secolo, e osservava che oggi numerosi artisti incontrano grandissime difficoltà a trattare i temi cristiani per mancanza di formazione e di esperienza riguardo alla fede cristiana. La bruttezza di certe chiese e delle loro decorazioni, la loro inadattabilità alla celebrazione liturgica, sono le conseguenze di tale divorzio, di una lacerazione che richiede una cura perché venga sanata.».
Possiamo stare comunque tranquilli: i fedeli e i turisti accorrono al Duomo di Milano, alla Basilica di Sant’Ambrogio, restano in coda ore ed ore per visitare l’Ultima Cena di Leonardo. Non mi risulta che si accalchino per visitare la chiesa di Gio Ponti.
Un proverbio popolare dice: “Vox populi, vox Dei”.
Susanna Manzin