“Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio” (Is 52,7)
I. Il papa chino a terra
Ho provato una curiosa sensazione lo scorso 27 aprile, gioiosa ma strana: praticamente mi hanno canonizzato un mito degli anni ’80 (e non solo), piu o meno come se dalla facciata della Basilica Vaticana pendesse l’effigie di Terence Hill. Di solito infatti siamo abituati a vedere i santi fuori dalla cronaca, già morti, anzi già chiusi nella nicchia e aureolati come se fossero sempre stati li. La mia prima e primordiale immagine di Giovanni Paolo II, ancora molto viva nella memoria, risale a quando io ero un bambino e lui un giovane Papa – appunto negli anni ’80 – e restavo incantato a guardarlo in televisione quando, appena sceso da un aereo si chinava a baciare il suolo – uno dei suoi tipici gesti, finché il fisico atletico glielo consentì – chiedendomi perché a me veniva vietato anche solo di toccare qualcosa che era caduto per terra e il Papa invece poteva addirittura baciare il suolo senza prendere malattie. Nella mia perspicace ingenuità infantile dedussi semplicemente che lui poteva farlo perché era santo e, col senno di poi nonché col sigillo della canonizzazione, posso dire che non mi ero affatto sbagliato. Naturalmente per me bambino il Papa era già vecchio, sia perché era il Papa – l’unico Papa che avessi mai visto fino a 9 anni fa – sia perché non avevo un gran senso della cronologia, e a dire il vero credevo che persino un quarantenne fosse vecchio (ricordo ancora che piansi quando mio padre raggiunse tale fatidica età). In realtà non sapevo che quell’energico sessantenne polacco rappresentava un immagine di bellezza esteriore e interiore,quasi ad esprimere visivamente quella perenne giovinezza della Chiesa, talmente vecchia da affondare le radici nell’eternità, e al tempo stesso, paradossalmente proprio per questo, sempre capace di rifiorire in una nuova primavera rimanendo la medesima.
Di fatto, oltre a non aver mai visto altri pontefici, a dire il vero da bambino avevo visto anche pochi sacerdoti, per cui era proprio il Papa a rappresentare ai miei occhi la Chiesa – lasciandomene impressa nella memoria una percezione fondamentalmente positiva che sarebbe rimasta nascosta ma mai soffocata persino negli anni della miscredenza adolescenziale. In effetti Cristo cammina con le gambe delle persone e la fede, o meglio quel primo germoglio di fede, mi venne incontro, sia pure televisivamente mediato, camminando sulle gambe allora vigorose di Papa Giovanni Paolo II.
II. L’ uomo venuto dal Cremlino
Ancora nella mia ingenuità infantile ero convinto che a diventare Papi fossero solo persone con determinati requisiti, a cominciare dal fatto di sapere tutte le lingue del mondo – come avrebbero potuto altrimenti fare tanti viaggi? Non sapevo che il Papa “globetrotter” fosse un fenomeno recente. Ma soprattutto (e a mia parziale giustificazione ricordo che avevo pochi anni) pensavo che avessero in comune una caratteristica ben precisa, cioè dovevano avere nomi particolari e quindi già le loro mamme li avevano chiamati Pio, Paolo, Giovanni, Giovanni Paolo per l’appunto – finché un giorno non lessi un nome stranissimo sulla prima pagina di un giornale che parlava di un certo Karol Wojtyla. Quando chiesi chi fosse il soggetto con un nome così strano scoprì quindi due cose: primo, che anche il Papa aveva un proprio nome e cognome; secondo, che era polacco, e quest’ultima caratteristica dovette avere successivamente (quando mi avvicinai all’età della ragione senza peraltro averla ancora raggiunta) un significato ben più importante del primo: il fascino che quell’uomo esercitava non era limitato alla sua persona ma irradiava, attraverso il prisma della storia polacca, la bellezza dell’intera storia e dell’identità europea forgiata da quelle radici cristiane in difesa delle quali si sarebbe alzato uno degli ultimi e più vigorosi gridi del suo pontificato. Nella fierezza di Giovanni Paolo II c’era la fierezza di una Chiesa che non si lasciava intimorire di fronte alle tempeste di un mondo appena uscito dal ’68 che voleva relegarla tra i relitti del passato. In Giovanni Paolo II la Chiesa mostrava la sua perenne giovinezza di fronte ad una contestazione giovanile che sarebbe forse più opportuno definire contestazione adolescenziale. E quando il Sessantotto era già vecchio di dieci anni, nell’ottobre 1978 dalla loggia centrale di San Pietro si affacciava la storia tutt’altro che finita di quell’antica giovane Europa, le cui radici congelate in Occidente dalla secolarizzazione avevano paradossalmente fatto scaturire un inatteso germoglio in quell’Oriente soggetto al rigido inverno sovietico. L’uomo venuto “dal Cremlino” – per citare un libro e poi un film che pochi anni prima avevano profeticamente descritto l’elezione di un Pontefice proveniente da oltrecortina – veniva ad offrire allo stanco Occidente e al mondo intero la fede vigorosa del popolo polacco:
“Andremo insieme su questa strada della nostra storia, la Jasna Gora, verso il Wawel, verso San Stanislao. Andremo pensando al passato, ma con l’animo proteso verso il futuro“,
diceva nel primo viaggio compiuto nella sua patria.
E al tempo stesso quel Papa proveniente “da un paese lontano” incarnava la persistenza di quella Roma onde Cristo è romano:
“Le antiche generazioni salivano in questo luogo [il Laterano]: generazioni di Romani, generazioni di Vescovi di Roma, successori di San Pietro, e cantavano quest’inno di gioia, che oggi ripeto qui con voi. Mi unisco a queste generazioni, io, nuovo Vescovo di Roma, Giovanni Paolo II, polacco di origine. Mi fermo sulla soglia di questo tempio e chiedo a voi di accogliermi nel nome del Signore“.
III. Gloria crucis: la bellezza sfigurata
Vennero poi gli anni ’90 e con essi venne purtroppo anche il Parkinson che iniziò a minare e poi a sfigurare il Pontefice più atletico, almeno della storia recente. Quelle mani che avevano afferrato con forza, appena eletto, il balcone della Loggia centrale San Pietro ora diventavano sempre più tremanti; quel volto da attore (che realmente era stato tale in gioventù) si avviava verso una lenta ma inesorabile paralisi. Vennero le cadute, poi il bastone e i pochi passi compiuti a fatica;vennero la sedia rotelle, la pedana mobile e si trasformava pian piano in quella povera maschera gonfia e immobile, ma dentro la quale batteva un grande cuore, che vidi passare a pochi metri da me nell’ottobre 2004, pochi mesi prima che Giovanni Paolo II tornasse alla Casa del Padre. “Non poteva parlare, il grande atleta di Dio, il grande guerriero di Dio finisce così: annientato dalla malattia, umiliato come Gesù. Questo è il percorso della santità dei grandi” – così, con poche parole Papa Francesco sintetizzava il percorso di Giovanni Paolo II attraverso tutte le tappe dell’estetica della santità – che è estetica dell’amore, quindi di un ordine superiore: “La croce è l’Epifania della bellezza, ma di una bellezza ‘altra’, caratterizzata dalla follia di Dio” (F. Cassingena-Trevedy). Le rughe e le piaghe fanno da iconostasi a questa bellezza accecante che deve nascondersi sotto le specie della vecchiaia e della malattia, senza che ciò ne impedisca di percepire quel fascino misterioso che nessun personaggio puramente mediatico avrebbe potuto emanare. Sotto un corpo sempre più fragile, la gloria che lo attendeva di lí a poco veniva naturalmente percepita da un popolo cui dava voce nel giorno delle esequie il card. Ratzinger, suo (ancora ignaro) successore: “Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice”.
Stefano Chiappalone