Nella piccola cappella regna il silenzio, interrotto soltanto da cinguettii e rintocchi di campane che giungono dalle finestre, lasciate aperte per trovare un po’ di riparo dal caldo. Lo sguardo è concentrato su quel piccolo tempietto posato sull’altare che nella tradizione ambrosiana mantiene la suggestiva struttura architettonica, un piccolo tempio nel tempio…o non è piuttosto la cappella ad assumere l’aspetto di un grande ostensorio, riecheggiandone e amplificandone le forme in un gioco neogotico di cuspidi e guglie, i cui marmi dai toni delicati e dalle forme leggere come le vesti degli angeli, a loro volta traggono luce, più che dal sole, da quell’Ostia bianca, dalla quale, più che guardare, ci sentiamo guardati con infinito amore da Colui che si nasconde “tra i mistici veli”. La gradevole sensazione di trovarsi nel posto giusto e nel momento giusto è confermata dalla liturgia: non poteva esserci giorno migliore della Solennità del Corpus Domini per ritrovarsi davanti a Lui, dopo averLo adorato e vegliato a turni per tutta la notte, affidando a quella fonte di infinita misericordia le nostre gioie e dolori, le sfide del nostro apostolato, allargando il cuore e lo sguardo alle necessità del Santo Padre, della Chiesa, del mondo.
Dalle forme neogotiche della cappella, il pensiero corre al secolo del gotico, quel Duecento che fu anche un secolo eucaristico, iniziato con le visioni di Santa Giuliana di Cornillon e culminato proprio con l’istituzione di quella festa del Corpus Domini, grazie alla quale ancora oggi Gesù passa per le nostre strade, ansioso di sanare e guarire i nostri cuori secolarizzati e persino le nostre istituzioni che vorrebbero escluderLo. Giuliana era una giovane monaca dedita ad adorare il suo Signore presente nell’Eucaristia, quando vide splendere una luna il cui chiarore era oscurato in un solo tratto. Era la liturgia della Chiesa, cui mancava qualcosa perché il suo splendore fosse pieno. Il Signore stesso le rivelò che mancava una festa tutta dedicata al Santissimo Sacramento. La festa fu dapprima istituita a Liegi, da dove l’arcidiacono Jacques Pantaleon, divenuto Papa Urbano IV la estese alla Chiesa universale nell’anno 1264.
Un evento straordinario si era verificato l’anno precedente a Bolsena, tra le mani di un sacerdote, Pietro da Praga, tormentato da dubbi sulla reale presenza di Cristo nell’Eucaristia. Possiamo immaginare con quale travaglio interiore Pietro saliva all’altare pronunciando “Hoc est enim Corpus meum”, “Hic est enim Calix Sanguinis mei”…un misto di stupore e terrore lo colse quando dall’Ostia consacrata vide uscire vivo sangue, confermando al tribolato sacerdote che Egli era proprio lì, sotto le apparenze di quella piccola ostia bianca. Il Sangue giunse fino a macchiare il corporale, che fu portato nella vicina Orvieto – in cui tuttora è custodito – dove si trovava il pontefice. Papa Urbano capì che era giunta l’ora di dare compimento alle visioni di Giuliana e istituendo questa grande festa eucaristica volle affidarne i testi liturgici a San Tommaso d’Aquino. Dalla mente e dal cuore di Tommaso scaturirono inni come il Pange lingua o il Lauda Sion, vertici di teologia e poesia che meritarono all’Aquinate l’approvazione di Cristo stesso: Bene scripsisti de me, Thoma – Hai scritto bene di me, Tommaso.
Sono passati sette secoli e mezzo, il mondo è cambiato (non sempre in meglio) e nella “nostra” piccola cappella neogotica, le parole di Tommaso vengono intonate da don Giovanni: Lauda Sion Salvatorem… Un versetto in particolare attira la mia attenzione: “Ecce panis angelorum, factus cibum viatorum – Ecco il pane degli angeli, cibo dei pellegrini”. Cibus viatorum: nel bel mezzo della Messa il pensiero va a quel “pan di via” degli Elfi, il cibo che rincuorava, che “nutriva la volontà e dava forza per sopportare e controllare membra e nervi in misura superiore a quella posseduta normalmente da una natura mortale” (J.R.R.Tolkien).
Non è infatti cibo qualsiasi, lo abbiamo ascoltato nel Vangelo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, vive in me e io in lui” (Gv 6,57). Sono passati duemila anni e anche tra le mani di don Giovanni si ripete il miracolo, come tra le mani di ogni sacerdote finché il mondo esisterà. Non semplicemente un miracolo, come quello accaduto a Bolsena, ma “il” miracolo che in ogni Messa rende presente Cristo sotto le apparenze del pane e del vino.
Nella piccola cappella scende il “grande silenzio” del Canone, che nel rito antico esprime lo stupore di trovarsi allo stesso tempo nel Cenacolo, sul Calvario e nella Gerusalemme celeste. Con pari stupore ci disponiamo in ginocchio per ricevere finalmente il cibo celeste: “Corpus Domini nostri Jesu Christi custodiat animam tuam in vitam aeternam – Il Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo custodisca la tua anima per la vita eterna”. Per attraversare le contraddizioni del nostro tempo abbiamo bisogno del cibus viatorum, il Pan di Via, che ci rincuora, ci dona la forza di intraprendere la “Cerca” e instaura un legame misterioso ed efficace tra tutti coloro che se ne nutrono: il Corpo sacramentale di Cristo genera il Suo Corpo mistico: Ecclesia de Eucharistia, l’Eucaristia “fa” la Chiesa, diceva San Giovanni Paolo II, e lo sperimento in quella piccola porzione di Chiesa radunata nella piccola cappella.
Mi basta guardarmi intorno per sperimentarne gli effetti: nei maestri, fratelli e compagni di strada, cuori generosi da cui il mio cuore ristretto ha imparato tanto, nei volti che conosco da una vita e in quelli appena conosciuti, nell’amicizia cementata da un destino e una vocazione comune… Mentre ci inginocchiamo ai piedi dell’altare per ricevere il pane degli angeli, intuisco la vera natura di quell’amicizia che si esprime nella pacca paterna di Marco, nella mano forte di Michelangelo, nell’abbraccio fraterno di Lorenzo, fino a stupirmi al pensiero di una Chiesa in cui tutti, dal Santo Padre all’ultimo battezzato, siamo “consanguinei”, perché nutriti del Corpo e Sangue del Re.
Ite, missa est – Deo gratias. Lo sguardo si sofferma ancora sulle piccole guglie e cuspidi, fino a “volare” ai marmi, alle chiese e alle cattedrali del mondo intero, a quella fioritura di bellezza scaturita nei secoli intorno all’Eucaristia da una società che voleva farsi “ostensorio”, nonostante i limiti umani, trasformando la fede in vita vissuta, in mentalità, in cultura e persino in architettura. Nelle persecuzioni i cristiani si raccoglievano intorno all’altare, nella crisi dell’impero romano furono gli unici a non perdersi d’animo riaggregando persino la società intorno all’Eucaristia (e alle cattedrali, ai monasteri), piantando i semi di quella civiltà il cui splendore parla ancora oggi al cuore di uomini che hanno smarrito persino le basi della fede – e con essa anche la speranza e la carità, prova ne sia il fatto, come ci ricordava Marco, che anche in un mondo secolarizzato quando uno ha fame va a bussare alle porte delle chiese.
A dimostrare che rimettendo Cristo al posto che Gli spetta, cioè al centro, possiamo costruire una società non solo più bella, ma più umana – anzi, più bella proprio perché in grado di guarire tutto l’uomo, di nutrirlo nel corpo e nello spirito, restituendogli la speranza nella misura in cui si abbandona all’Amore. Nessuno adorna una casa che non sente come propria o in cui si trova male. Non so se ci sia un nesso tra crisi della bellezza e crisi della speranza, ma è certo che la nostra epoca è popolata da persone che nel mondo si trovano spesso a disagio, che non trovano il senso della propria vita, che hanno smarrito la strada, che si lasciano vivere o, peggio ancora, si lasciano morire, trovando al massimo spalle su cui piangere, ma pochi cuori forti su cui appoggiarsi.
Quando gli uomini torneranno in ginocchio davanti al Re, sperimenteranno ancora quella misteriosa fratellanza che scaturisce dall’Eucaristia per riprendere il cammino con rinnovata speranza e, nonostante le fatiche, cantare e far cantare persino le opere e le istituzioni umane. L’unica via d’uscita da un mondo grigio, passa per un – apparentemente – piccolo dischetto bianco: è Lui l’Autore nascosto “tra i mistici veli”, l’ispiratore di ogni bellezza.
Stefano Chiappalone