Poco più di 20 anni fa cominciava l’epoca della presenza di Silvio Berlusconi nella politica italiana (e internazionale) con la vittoria elettorale nelle elezioni del 1994. Oggi è possibile un primo tentativo di bilancio, visto il tempo significativo trascorso, sebbene certamente provvisorio. Ed è possibile accostare Berlusconi e il berlusconismo all’altro astro nascente, anzi ormai nato e per qualcuno addirittura già in fase calante, cioè a Matteo Renzi e al cosiddetto “renzismo”. Un accostamento che nasce anzitutto dalle comuni caratteristiche comunicative, entrambi essendo capaci di parlare alla gente non in politichese, ma di farsi capire, di riuscire simpatici, di suscitare energie positive.
Berlusconi ha cambiato molto del modo di fare politica, come tanti analisti ormai riconoscono, chi disprezzando il suo aver messo in campo un patrimonio economico al servizio di una persona, se stesso, chi invece vedendo in questa scelta il modo di uscire finalmente dalle ideologie dei partiti politici di massa nati dopo la Prima guerra mondiale, che avevano avvelenato l’Europa provocando guerre e ritardandone lo sviluppo.
A mio avviso il merito storico che gli va riconosciuto e che rimarrà nella storia è quello di avere restituito una centralità alla questione comunista impedendo ai postcomunisti di andare al governo dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo la fine dell’Unione sovietica, ma mantenendo intatta la “gioiosa macchina da guerra” che l’allora segretario del partito Achille Occhetto stava per condurre al governo nelle elezioni che invece videro il trionfo inaspettato del centrodestra alleato con la Lega di Umberto Bossi. Questa vittoria elettorale permise lo sdoganamento di molti temi che nessuno era mai riuscito o aveva voluto che diventassero centrali almeno dalle elezioni del 18 aprile 1948, come la libertà delle famiglie di educare i figli nelle scuole che desiderano, come lo statalismo che nega il principio di sussidiarietà, come una politica estera non equidistante e ambigua, ma esplicitamente a fianco dell’Occidente, pur mantenendo una certa autonomia di giudizio e di amicizie, come nel caso di Putin e la Russia o di Gheddafi e la Libia. Insomma, Berlusconi diede corpo a un partito conservatore di massa che per diverse ragioni storiche (in primis il fascismo) in Italia non si era mai costituito dopo l’unificazione. Un partito che ha salvato il Paese da quell’accelerazione dell’attacco alla vita e alla famiglia realizzatasi dopo il 1989, quando la lotta di classe e il conflitto ideologico lasciavano il posto alla questione antropologica, segnata dall’avanzata dell’ideologia gender. E questo avvenne nonostante la notoria insofferenza di Berlusconi per le questioni morali e il suo conclamato anarchismo valoriale.
Di tutto questo oggi sembra non essere rimasto nulla. Il centrodestra diviso, anche sui principi, lo stesso Berlusconi e la sua Forza Italia schierati, lui certamente e il partito in parte, con coloro che propugnano la negazione del modello familiare fondato sull’amore di un uomo e di una donna aperto alla trasmissione della vita. Non solo, ma anche del resto, dei temi classici del berlusconismo quali la riduzione delle tasse, la libertà dei corpi sociali dall’invadenza dello Stato, e nonostante dieci dei vent’anni trascorsi al governo del Paese, nulla è entrato veramente nella struttura dello Stato.
Ora, so bene che non è ancora possibile né giusto dare un giudizio storico attendibile sul motivo di questa debacle, ma certamente la sconfitta storica è un fatto.
Mi permetto solo di suggerire una pista di indagine. Il berlusconismo ha cambiato e molto l’immagine del fare politica nel Paese e ha inciso sul costume degli italiani, non fosse altro che per l’influenza delle televisioni commerciali. Ma queste ultime, che pure per il solo fatto di esistere hanno rappresentato una vittoria della libertà contro lo statalismo, non hanno inciso sulla cultura del Paese proprio perché non diverse dalle altre TV, pubbliche o no. Insomma, perché il berlusconismo non ha scelto di incidere sulla cultura, non ha creato case editrici, giornali, riviste, università e quanto serve per tentare di influenzare il modo di essere e di vivere, insomma la cultura di un popolo?
Il renzismo è giovane, più ancora del suo premier, e questa sembra essere la sua arma preferita. Comunicare simpatia e voglia di fare, rivolgendosi a tutti per dare vita al partito della nazione, cioè al partito di tutti o quasi. Per fare questo non si deve insistere sulle identità che dividono, come i principi cui queste identità fanno riferimento. Non si tratta di essere nostalgici delle ideologie, al contrario. Sono contento che Renzi abbia ulteriormente contribuito a ridimensionare la presenza dei comunisti e dei postcomunisti, nel Pd e nel Paese, continuando l’opera che in altro modo aveva cominciato Berlusconi. Ma se ai partiti delle ideologie si sostituiranno quelli, o quello unico peggio ancora, del relativismo, il Paese non ne uscirà migliore.
Ogni popolo ha un’origine, una identità storica particolare e il governo di quel popolo ha il dovere di custodire e valorizzare quella identità, oltre che di dare una veste politica ai principi universali del bene comune, quei principi che non sono negoziabili. Se non lo fa, conquista il potere e si attacca ad esso, in attesa di essere sostituito da un nuovo pretendente. Dal berlusconismo al renzismo, niente cambierà, e il Paese andrà di male in peggio.
Marco Invernizzi