Le agenzie di stampa battono la notizia che è nato Abrahim Hassan, è un maschio, origini giordane, adesso ha cinque mesi e sta bene: bella notizia, di per sé. Triste storia a lieto fine, sembrerebbe, se si considera che i suoi genitori hanno visto morire altri due figli con una terribile malattia ereditaria, che i giornali nominano come la sindrome di Leigh. Nel 30% dei casi questa grave malattia neurologica è causata da un difetto del genoma dei mitocondri. I mitocondri sono organelli contenuti nel citoplasma di ogni cellula, con funzioni molto importanti, con un proprio DNA specifico, che non porta informazioni fenotipiche, ma metaboliche. Non decide del colore degli occhi o della calvizie, per intenderci, ma di molti meccanismi di funzionamento (e talvolta di malfunzionamento). Sono indispensabili, non si possono tirar via e basta: in natura nulla è inutile.
Al contrario dei suoi fratelli, lui invece non ne è affetto, e i suoi genitori possono sperare di vederlo crescere sano e salvo. Se i giornali raccontano così questa storia, chiunque legga non può che rallegrarsi, ammirare la scienza e inacidirsi verso quel che ha reso necessario un viaggio in Messico per concepirlo, invece che fare tutto comodamente a casa propria.
In Europa, il Parlamento britannico nel febbraio 2015 ha dichiarato lecita la tecnica di fecondazione a tre genitori sul proprio territorio, ma non si hanno notizie che poi qualcuno lì l’abbia fatto. In Messico, invece, nessuno si è pronunciato, si può fare tutto ciò che non è vietato, e questo non lo è. Così un gruppo di medici statunitensi, capitanato dal dott. John Zhang del New Hope Fertility Center di New York è volato in Messico.
Che cosa è, dunque, la fecondazione a tre?
È un puzzle di gameti. Ingredienti: un ovulo “x” nei mitocondri, un ovulo senza difetti e uno spermatozoo. Due le procedure possibili: la prima è fecondare con lo spermatozoo del papà un ovulo della mamma, sebbene malato, togliere il nucleo formatosi (il patrimonio genetico del bambino così concepito) dal contesto con i mitocondri “cattivi”, inserirlo in un ovulo privato del suo DNA ma con i mitocondri “buoni” e sperare che l’embrione proceda nel suo sviluppo.
C’è un problema, molto raramente esplicitato: gli ovuli, senza essere fecondati, non si sviluppano; al microscopio, un ovulo e un ovulo-appena-fecondato (embrione a una cellula) si somigliano molto, ma sono profondamente, sostanzialmente diversi. Il primo è una cellula femminile, una di tante, grossomodo tutte uguali a se stesse. Il secondo è una sostanza individuale, indubitabilmente umana, autonomamente in grado di svilupparsi e apparire dopo nove mesi con l’aspetto di un bambino. In tre parole: un nuovo essere umano.
Ora, quel gomitolo originato dall’incontro del DNA nucleare di mamma e papà non può essere trasferito in un ovulo non fecondato, non inizierebbe il suo sviluppo, perché sono tante e tanto decisive le modifiche apportate dall’ingresso dello spermatozoo nell’ovulo (per dirne solo una, quella “onda calcio” che fa scaturire un’energia straordinaria che dà il via al metabolismo cellulare, un littlebang, per dirla poeticamente). Occorre perciò prendere un ovulo già fecondato (e ostinatamente bisogna ricordare che non è più un ovulo, ma un embrione di una sola cellula), sloggiare tutto il nucleo e tenere solo il citoplasma con i mitocondri “buoni”. Come a dire: devo usare casa tua, tu vattene che entro io. Di più: ti metto in una casa perché altrimenti non mi si attivano acqua, riscaldamento e tessera della Coop, e poi ti butto fuori e ci metto qualcun altro. Dove va il primo inquilino? In un “fuori”, senza idratazione, calore, nutrimento; nella spazzatura.
Non deve essere stato poi così difficile capirlo anche per i genitori di Abrahim: infatti da musulmani osservanti pare che abbiano chiesto di utilizzare l’altra procedura, quella che gli è sembrato non causasse perdite umane. Due ovociti di due donne diverse (uno tutto sano privato del suo nucleo di 23 cromosomi, quello della ‘donatrice’, e l’altro con i cromosomi malati, quello della mamma), estrazione dei 23 cromosomi della mamma e immissione di questi nell’ovulo denucleato con i mitocondri sani. Poi fecondazione con lo spermatozoo del papà, cioè +23 cromosomi maschili. Risultato: 46 cromosomi. Decisamente umano. Abrahim? Certo, non si sa a quale tentativo, ma quello che è nato è lui di sicuro: da subito, da appena i cromosomi di mamma e papà si sono incontrati e fusi.
E qui qualcosa non torna e forse le spiegazioni date ai genitori non sono state altrettanto chiare, come non lo sono per chiunque non abbia informazioni cliniche approfondite. Quanti tentativi sono stati fatti per ‘ottenere’ Abrahim? Quanti non-Abrahim, ma certamente figli come lui, non ce l’hanno fatta a crescere abbastanza per arrivare sotto il cuore della mamma? Che certamente li amava come gli altri, tutti gli altri, anche quelli perduti per malattia e non per tecnica. E sono stati impiantati altri embrioni nell’utero, oltre a Abrahim?
“No, non si tratta di una tecnica di cui aver paura”, dichiara un anonimo articolista della testata on-line wired.it, “anzi, sarebbe in grado di salvare le vite di bambini”. Ma non dice a quale prezzo.
La scienza invece mi dice che deve chiedere una cosa terribile, alle mamme: quanti figli sei disposta a perdere per averne uno sano?
Chiara Mantovani