L’Europa, infatti, “sembra volersi congedare dalla storia” (cit. a pag. 11). Con questa denuncia di papa Benedetto XVI (Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi del 22 dicembre 2006), l’Autore inizia il suo viaggio nel cuore dell’Europa in crisi d’identità. La denuncia rispecchia una situazione oggettiva: le culle vuote del Vecchio Continente. Quello che colpisce gli analisti e gli studiosi non europei che osservano l’Europa è infatti non tanto questa crisi finanziaria o quel problema politico quanto il dato aritmetico secondo cui in Europa muoiono ogni giorno più persone di quante ne nascano. Questo dramma si consuma quotidianamente da anni così che non c’è un paese dell’Europa Occidentale con un tasso di nascite che corrisponda al livello minimo di mantenimento della popolazione (2,1 figli per donna) indicato dai demografi. E’ un dato che, in una situazione di assenza di guerre o carestie, non ha precedenti nella storia. E’ a questo che fa riferimento il congedo dalla storia denunciato dal pontefice a cui il sociologo dedica il primo capitolo: una civiltà che non fa più figli logicamente si estingue, in modo naturale, anche senza guerre. Certo potrà illudersi di esistere ancora ricorrendo agli stratagemmi del caso (ad esempio spostando sempre più in avanti l’età pensionabile dei suoi cittadini o acquisendo continuamente mano d’opera straniera con l’immigrazione di massa) ma questo non impedirà la sua fine. Dopotutto è già successo nella storia. L’esempio dell’Impero Romano torna attuale: “quando il declino del numero dei cittadini romani sembrò inarrestabile, a qualcuno venne la stessa idea che ha qualche politico italiano oggi: concedere la cittadinanza a tutti i ‘barbari’ (una parola non offensiva, che indicava solo chi non aveva come lingua madre il latino) arruolati nell’esercito. Il numero dei cittadini romani risalì all’istante. Senonché i barbari in armi promossi cittadini si guardarono in faccia, si resero conto di essere maggioranza nelle legioni e si chiesero perché mai dovessero farsi comandare dai romani minoritari. Non avendo a disposizione schede elettorali uccisero i loro capi, andarono a Roma e deposero l’imperatore. Così finì l’Impero Romano d’Occidente” (p. 19). Torna utile anche riflettere su che cosa aveva ridotto quello che fino a pochi decenni prima era un grande popolo, esportatore di una prestigiosa civiltà, in così poche unità: “i romani [avevano iniziato a praticare] l’aborto, l’infanticidio e […] una forma primitiva di eutanasia[…] abbandonando semplicemente senza cure i vecchi malati e aspettando che morissero” (p. 20).
Tuttavia per il sociologo il problema è più a monte e i dati non vanno solo letti ma anche interpretati. Per questo, fondamentalmente, gli atti e i comportamenti esterni del corpo sociale europeo altro non sono che il sintomo di una crisi morale e spirituale dell’anima europea. L’Europa infatti appare stanca, vittima di una stanchezza metafisica di chi non ha più un’identità. Non è un caso che taluni circoli culturali oggi celebrino ufficialmente l’affermazione del cd. ‘pensiero debole’, l’idea cioè che non esistano verità, che comunque non valga la pena neanche cercarle e che tutto sommato questo sia un bene. Questo pensiero nichilista appare però come una palese contraddizione della storia della coscienza europea che è stata una storia vivace e ha dato origine tanto alle scienze moderne quanto alle strutture giuridico-amministrative che fondano gli stati di diritto occidentali. Quella in atto per l’Europa, riprendendo il magistero pontificio, è insomma “un’ ‘apostasia’ da se stessa, prima ancora che da Dio” (cit. a pag. 14). Il lato più evidente di questa apostasia è forse la separazione radicale tra la morale e le leggi che ha segnato ultimamente il tessuto sociale dei principali stati del Vecchio Continente. E’ in questo contesto che appare spiegabile la crisi demografica dell’Europa, per taluni un vero e proprio ‘suicidio demografico’ (cfr. pp. 18-19). In definitiva la civiltà europea sembra davvero chiedersi se sia meglio vivere o morire, o magari non nascere affatto. Ecco, “una civiltà che si pone questa domanda è matura per il suicidio” (p. 20). La vera questione a cui filosofi e sociologi devono rispondere oggi è quindi quale mai sia stata l’ideologia che ha portato la maggioranza degli europei a considerare delle strane idee autodistruttive come ragionevoli.
E’ questo l’oggetto del secondo capitolo in cui l’Autore rintraccia la portata epocale della I guerra mondiale: il primo conflitto che si contraddistingue per l’uso massiccio di armi di distruzione di massa e la separazione fra guerra e morale. La guerra rende poi evidente in Europa la diffusione esasperata di nazionalismi senza nazione, ideologie in cui ciascuno vuole più potere per sé dimenticando la comune radice cristiana (che la Riforma protestante aveva frantumato ma non negato). Così, la guerra è la conseguenza della separazione dell’idea di patria e di nazione dalle sue radici religiose: il Kulturkampf in Germania, la laicïté in Francia e le campagne laiciste e anticlericali dell’Ottocento in Italia. Non solo, è la guerra che umiliando la Germania e distruggendo l’Impero Austro-Ungarico creerà la ‘questione tedesca’ che diventerà il brodo di coltura del Nazionalsocialismo hitleriano e quindi della II guerra mondiale. Ancora, è la guerra che vede l’avvento del comunismo in Russia, che segnerà la storia orientale dell’Europa (la Guerra fredda fra Occidente e comunismo, per alcuni storici III guerra mondiale). Infine, è la guerra che eliminando tutte le forme imperiali rimaste e con esse l’Impero Ottomano contribuisce a far nascere, nel risentimento musulmano, i prodromi del fondamentalismo islamico che oggi si manifesta protagonista di quella che molti chiamano già IV guerra mondiale. Se queste sono state le premesse storiche, non meno rilevanti sono state quelle dottrinali, articolate nel pensiero relativista e in quello laicista che negano la ragione come strumento capace di conoscere la verità. Tuttavia, è evidente che la vita, i diritti umani e la possibilità di convivere fra religioni diverse sono garantite solo da una fiducia condivisa nelle capacità conoscitive della ragione, comune a tutti gli esseri umani in virtù della loro natura. Se manca tale fiducia, quale sia la verità sarà deciso di volta in volta alle leggi brutali della forza e dalla violenza, in definitiva da chi sia più capace di far esplodere bombe. Così, anche la verità diventerà una semplice funzione della violenza.
Il viaggio di Introvigne prosegue poi ripercorrendo più in dettaglio la storia dell’Occidente quale storia di progressive ‘radicalizzazioni’, in quattro tappe, individuate da una corrente del pensiero cattolico controrivoluzionario che fa capo a Plinio Corrêa de Oliveira in altrettante “rivoluzioni” (p. 122). Vengono così esaminate la rivoluzione protestante del fideismo (in religione) e dell’assolutismo (in politica), quella dell’illuminismo francese che nella sua componente radicale provoca la Rivoluzione sanguinaria del 1789 e l’inaridimento filosofico della ragione in razionalismo, quindi l’avvento del marxismo pratico con il comunismo e infine il relativismo libertario nato dalla contestazione studentesca del 1968 e approdato ultimamente a un radicale soggettivismo che s’impone, come un totalitarismo, in ogni ambito della società. Per l’Autore tuttavia, la guarigione della malattia morale è possibile ed è il ritorno, prima ancora che alla fede, a quella ragione che da Atene a Roma ha fatto dell’Occidente la civiltà che tutti conosciamo. L’importante è che le minoranze creative, che così spesso hanno cambiato la storia, ne siano finalmente consapevoli.
Omar Ebrahime