Il libro è frutto della loro esperienza sul campo, ed è di grande interesse per tutti noi: ricordiamo che l’anno scorso a Milano in un maxi processo sono stati condannato 110 esponenti della ‘ndrangheta, che operavano in Lombardia infiltrandosi nel mondo dell’imprenditoria e delle istituzioni. Un fenomeno che dunque non è più circoscritto alle Regioni del Sud, ma quello che più colpisce della mafia in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia è il crescente consenso sociale alle mafie. Vi sarà capitato di vedere in televisione le immagini della gente che aggredisce le forze dell’ordine che stanno eseguendo degli arresti, oppure di restare meravigliati nello scoprire che il superlatitante, che viene finalmente arrestato, era nascosto nel suo stesso paese di origine, evidentemente coperto dalla comunità. Non si può giustificare il consenso solo con la paura: Airoma e Mantovano ci aiutano a capire che in molti casi viene riconosciuto all’organizzazione criminale un ruolo sostitutivo rispetto a quello delle istituzioni e dello Stato. Perché tanti giovani intervistati dichiarano di apprezzare ruolo e funzione sociale dell’organizzazione mafiosa? Perché l’intervento di Cosa Nostra è cercato da politici, imprenditori, commercianti? Perché si chiede alla mafia un aiuto che dovrebbe arrivare dalle istituzioni? Chi sostiene che si tratti del risultato di una società arcaica, contadina, arretrata, familiare, è smentito dai fatti: la società diventa tecnologica, industriale, la famiglia è un istituto in crisi, eppure la mafia cresce. Ma cresce proprio dove la famiglia è in crisi, perché risponde a “quella domanda di protezione e identità per uomini ridotti alla nudità sociale”. Il vuoto lasciato nella società occidentale dall’assenza della figura del padre viene colmato dalla cultura del branco, del capoclan.
Gli autori ricordano anche le modalità aggressive e violente con le quali è stata realizzata nel Sud Italia l’unificazione italiana: l’anticlericalismo viscerale, la spogliazione delle ricchezze economiche del Sud, l’arroganza di uno Stato che veniva sentito lontano e nemico, hanno certamente favorito la crescita di consenso verso i padrini. Ai quali peraltro gli stessi rappresentanti del nuovo Stato si sono spesso rivolti per cercare consenso e appoggio.
L’uomo privato del supporto della famiglia, abbandonato dalle istituzioni sociali e politiche, si rivolge alla mafia, che si presenta come struttura organizzativa del corpo sociale, di fronte alle carenze dello Stato.
Conoscendo però i metodi utilizzati dalla mafia, ci si può chiedere: ma come si può dare consenso ad una organizzazione che per realizzare questo ordine sociale utilizza metodi criminali? In realtà, l’uomo moderno è fortemente scettico di fronte ai concetti di verità e giustizia. Gli autori si chiedono allora: quanto ha pesato sulla diffusione della mafia il relativismo, che ha eliminato la differenza tra bene e male, tra giusto e ingiusto, che ha spazzato via la grammatica comune della moralità delle azioni? La questione mafiosa diventa allora questione antropologica, e anche in questo campo esiste un’emergenza educativa.
Tutti devono fare la loro parte: “La guerra contro la mafia ha senso se tutti coloro che sono chiamati a svolgere un ruolo lo esercitano fino in fondo”. Da parte degli amministratori locali e delle autorità religiose è importante prendere sempre le distanze senza equivoci, perché la partecipazione di sindaci ai funerali dei mafiosi o dare un ruolo ai capoclan nelle processioni rafforza il consenso delle autorità mafiose del luogo, e lascia sole le forze dell’ordine e la magistratura nella loro opera di contrasto. Contribuiscono a quel consenso i giornalisti, che pubblicano dichiarazioni di mafiosi; le canzoni neomelodiche espressioni di una cultura dove il camorrista è un eroe, un personaggio positivo e chi lo denuncia un infame, certe fiction della TV che raffigurano i mafiosi come degli eroi. Sempre alla ricerca di questo consenso sociale, la mafia cura in modo particolare la sua vicinanza ai simboli della religione cattolica, perché vuole dimostrare di essere espressione delle tradizioni di quel territorio, ancora fortemente legato a certe devozioni, tradizioni. Per lo stesso motivo alla mafia piace il calcio, perché essendo lo sport più popolare conferisce popolarità a chi se ne interessa. Il controllo di un club calcistico consolida la leadership del clan sul territorio, e ai boss mafiosi piace farsi fotografare con i calciatori big del nostro campionato, spesso inconsapevoli di quanto la loro immagine sia utilizzata da quel boss per guadagnare consenso. Al contrario è di grande aiuto, per una inversione di rotta, per strappare quel consenso sociale alle mafie, la Nazionale italiana che nel 2011 accetta con entusiasmo di allenarsi in Calabria in un campo di calcio confiscato alla ‘ndrangheta.
Il libro racconta tutto questo attraverso tanti esempi concreti, con piglio quasi giornalistico ma a tratti drammatico e commovente, andando alla ricerca delle motivazioni sociali e antropologiche del fenomeno. Emerge tutta l’esperienza sul campo degli autori, come quando viene descritto il sistema di sequestro, confisca e destinazione dei beni dei mafiosi, come nuova frontiera della lotta alla mafia: è la riconquista di un territorio, soprattutto quando al bene confiscato viene data una destinazione sociale. E’ una scommessa che non deve essere perduta, e che richiede impegno e responsabilità di tutti i soggetti coinvolti. Vengono citati esempi virtuosi ma anche incidenti di percorso e gravi leggerezze. Ma è una strada da percorrere con impegno, come quella delle associazioni antiracket, che fanno uscire dalla paura e dall’isolamento coloro che vengono perseguitati dal racket. Vengono raccontati gesti densi di significato, che contribuiscono all’inversione di tendenza.
A formare questo consenso alle mafie hanno contribuito, ahimè, alcuni uomini di Chiesa che hanno dato spazio ai capoclan nelle cerimonie religiose, ma non bisogna dimenticare il sacrificio dei tanti sacerdoti che si sono impegnati nel lavoro di educazione della gioventù, per strapparla alla mafia: primo tra tutti don Pino Puglisi, beatificato nel 2012. Gli autori ci ricordano il suo sacrificio e anche le parole durissime del beato Giovanni Paolo II, che nella Valle dei Templi ha puntato l’indice contro i mafiosi con quel “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio” che è rimasto tra i gesti più forti del suo Pontificato. Gli ha fatto eco Papa Francesco con altrettanta durezza in occasione della beatificazione di don Pino Puglisi. Due Pontefici del sorriso, della misericordia, ma che parlando di mafia hanno usato un linguaggio particolarmente duro e deciso.