Il 17 dicembre inizia la Novena liturgica di Natale, chiamata dalla liturgia ambrosiana “ferie prenatalizie dell’Accolto”, in cui si indirizza ancora più decisamente lo sguardo sulla grotta di Betlemme.
Il rischio del buonismo è dietro ogni ciak delle zuccherose pubblicità televisive di questi giorni. Luminarie, banchetti e babbi non devono far dimenticare al credente la sostanza della festa, il mistero dell’Incarnazione. Nel Natale si assiste al farsi uomo del Figlio “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”.
Proprio l’accenno al Credo ci riporta alla temperie in cui nacque non solo quel testo (detto “niceno-costantinopolitano”), ma anche la necessità di festeggiare il Natale come la solennità che ricorda la doppia natura di Cristo, vero Dio e vero uomo. Quella dei grandi concili ecumenici del IV-V secolo, principalmente Nicea (325) e Calcedonia (451).
Il concilio di Nicea fu convocato dall’imperatore Costantino per dirimere la questione ariana. Ario, prete di Alessandria d’Egitto, pretendeva di risolvere il mistero della SS. Trinità subordinando il Figlio al Padre. Gesù sarebbe stato una creatura del Padre affinché non si perdesse l’unicità di Dio. La condanna di questa posizione da parte del concilio di Nicea non comportò la fine dell’eresia ariana: Costantino stesso si fece battezzare in punto di morte (337) da un vescovo ariano e molti suoi successori al trono imperiale professarono l’arianesimo ai danni dell’episcopato cattolico, che fu spesso esiliato dalle proprie sedi. Accadde anche a Milano nel 355, quando S. Dionigi fu deposto e sostituito con Aussenzio, un eretico che riuscì a coalizzare attorno a sé parte del clero e necessitò di Ambrogio (374-97) per essere superato e dimenticato.
Passarono gli anni e, di nuovo dall’Oriente, arrivò un’ulteriore minaccia all’integrità della Fede. Stavolta l’errore era opposto a quello precedente: se prima si esagerava l’umanità di Cristo, ora veniva esaltata la natura divina fino a considerare una bazzecola o una finzione gli effetti dell’Incarnazione. La nuova eresia, il monofisismo (una sola natura) prese ancora una volta piede in Egitto, ma anche a Costantinopoli, il cui patriarca nel 449 fu aggredito ed esiliato in Lidia, proprio per l’opposizione alle tesi monofisite, mentre presiedeva il primo tentativo di fare chiarezza nella Chiesa, il II concilio di Efeso (Efeso I, nel 431, aveva espunto definitivamente l’arianesimo venerando Maria come “Madre di Dio”).
L’imperatore bizantino Marciano (450-57), imitando il gesto di Costantino, convocò allora un nuovo concilio ecumenico, che si tenne a Calcedonia nella basilica dedicata a S. Eufemia. Era Papa in quel momento S. Leone I Magno (440-61), il quale mandò in Asia Minore come legati S. Abbondio, vescovo di Como, ma nato a Tessalonica (Salonicco), ed un presbitero milanese di nome Senatore. I legati pontifici, espulsi nel 450 da Efeso, si presentarono a Caledonia con la lettera che Leone aveva indirizzato a Flaviano. Non appena i padri conciliari ascoltarono l’opinione del Papa, che tornava alla formula di fede di Nicea sulle due nature di Cristo, proruppero nel grido “Pietro ha parlato per bocca di Leone!” e la trasformarono nella deliberazione ufficiale del sinodo.
Come un’assemblea di gelosi vescovi orientali si capovolse in una delle più commoventi affermazioni del Primato petrino? Il merito andrebbe ad un intervento di Senatore, che avrebbe sbloccato la situazione con uno dei primi “giudizi di Dio” riportati dalle fonti storiche. Tali “giudizi” consistevano nel mettere in atto una procedura che richiedesse un intervento diretto di Dio. Senatore, memore della predicazione di S. Ambrogio, che tanto aveva sottolineato l’importanza dei martiri dei secoli delle persecuzioni, propose di aprire il sarcofago di S. Eufemia e di far stringere alla santa due pergamene, una con le tesi cattoliche, l’altra riportante quelle di Eutiche, il caposcuola del monofisismo. La mano che reggeva il cartiglio monofisita si sporse fuori dal sarcofago e gettò a terra il rotolo tra lo stupore dei presenti. Senatore dopo l’ambasceria tornò nella sua Milano, della quale divenne arcivescovo dal 472 alla morte (475). In ricordo dei fatti di Calcedonia fece costruire la chiesa cittadina di S. Eufemia, oggi ammirabile nella sua versione neogotica, nella quale fu poi sepolto.
Chi in questi giorni fosse a Milano, non manchi di passare a S. Eufemia: una volta entrato, reciti un Gloria Patri, la preghiera per eccellenza dell’età dei concili, davanti al presepe in memoria di S. Senatore. L’unico senatore che, di questi tempi, un milanese ricorda volentieri. Se il Natale si festeggia secondo la modalità che tutti conosciamo lo dobbiamo un po’ anche a lui.