Alcuni circoli “tradizionalisti” si stanno lanciando in un’operazione storiografica piuttosto azzardata: giustificare il proprio atteggiamento attuale nei confronti di Papa Francesco tramite episodi ripescati dal passato più remoto. C’è chi rivaluta perfino le posizioni anti-infallibiliste dell’Ottocento, viziate dal clima giurisdizionalista dell’Illuminismo, che propugnava sottomissione della Chiesa alle singole autorità statuali scardinandone l’universalità.
La storia, però, non si ripete ed il passato offre, sì, alcuni momenti di crisi, ma molto circostanziati, tanto da risultare un’ulteriore prova dell’infallibilità del Papato in fede e morale, secondo i termini indicati dal Concilio Vaticano I (1869-70), e della sua indefettibilità, ovvero la capacità di non venire meno nell’ortodossia lungo i secoli. Ci occupiamo ora solo di quelli che riguardano specificamente errori dottrinali, quelli chiamati in causa dai “tradizionalisti”, poiché degli scandali alla Papa Borgia (Alessandro VI 1492-1503), che non hanno modificato nulla del catechismo, le scuole ci hanno reso fin troppo edotti.
Il primo riferimento è, in genere, tratto dal Nuovo Testamento. Nel 48 d.C. si riunì il concilio di Gerusalemme, durante il quale S. Pietro dichiarò la decadenza della legge mosaica per tutti i battezzati, poiché la rivelazione antica si è compiuta
nella persona di Cristo. Tuttavia, poco tempo dopo lo stesso Pietro, per non indispettire alcuni anziani della comunità cristiana della stessa Gerusalemme, mangiò kosher con loro. S. Paolo non la prese bene: arrivò, sue testuali parole, “a resistergli in faccia”, poiché, a parer suo, Pietro aveva sconfessato quanto deciso in precedenza. In realtà, il Principe degli Apostoli intendeva semplicemente non scandalizzare persone che, abituate a determinati cibi fin dall’infanzia, non arrivavano psicologicamente a metabolizzare il cambiamento, che era stato difficile anche per lo stesso Pietro. Era stato, quindi un gesto di sensibilità umana e pastorale, che non intaccava in nulla l’insegnamento dottrinale. Paolo comprese
a sue spese cosa intendeva dire Pietro quando dovette egli stesso regolamentare le celebrazioni eucaristiche di Corinto. Sperimentò, infatti, in prima persona la categoria dello scandalo. Le parole “Noi cerchiamo di non dare a nessuno motivo di scandalo, perché non venga vituperato il nostro ministero” (II Corinzi 6,8) allude al rammarico per litigi passati ed illumina la qualità di un percorso spirituale interiore.
Gli altri due episodi celebri dell’antichità riguardano i Papi Liberio (352-66) ed Onorio I (625-38). Liberio fu esiliato dall’ariano imperatore Costanzo per il rifiuto di approvare la deposizione di S. Atanasio di Alessandria (355) e fu costretto a firmare un documento capzioso, simile al Credo niceno, ma molto più debole sulla divinità di Gesù, per poter tornare a Roma. Onorio I avallò il monotelismo (volontà unica di Cristo, quella divina) del patriarca Sergio di Costantinopoli. Martin Lutero e la storiografia protestante si sono fissati per primi su questi eventi per dimostrare la possibilità che il Papa erri in dottrina, soprattutto perché il Concilio Costantinopolitano V (680) comprese una condanna formale di Onorio, peraltro non accettata da Roma.
Onorio, però, non aveva compreso tutti i termini della questione ed era stato male informato. Secondo Agostino Saba
“Onorio, confessando una sola volontà di Cristo, non lo fa in senso eretico monofisita, ma vuole escludere da Cristo la dualità del buono e del cattivo volere, come trovasi nell’uomo caduto”.
Anche queste “prove”, quindi, scoppiano in mano a chi le agguanta. Appare fin da subito evidente come, senza le torture,
l’esilio e l’inganno, quei Papi non avrebbero mai sottoscritto tesi eretiche. Inoltre, non le sostennero essi stessi quando furono liberi di predicare.
Qualche “storico tradizionalista” allarga il campo anche a Pasquale II (1100-18). Egli, nel 1111, al fine di risolvere la lotta per le investiture tra Papato ed Impero, riguardante l’elezione dei vescovi, si incontrò a Sutri con Enrico V, con il quale concordò un compromesso. L’imperatore avrebbe investito il prelato del feudo spettante con tanto di consegna delle insegne episcopali (anello e pastorale), poi sarebbe seguita la consacrazione religiosa. Era, effettivamente, un passo indietro rispetto alle battaglie disciplinari di S. Gregorio VII (1073-85), che puntavano a far comprendere come il Sacramento dell’Ordine non sia vincolato alle pretese dell’autorità civile, né al beneficio economico della sede.
C’è chi, rievocando questo episodio, minimizza un particolare importante. Tra l’incontro di Sutri (9 febbraio) e la firma dell’accordo (11 aprile) passa un breve periodo di detenzione, che il Papa affrontò con il collegio cardinalizio. E’ profondamente sbagliato estendere ad una situazione del genere il termine “eresia”, sulla base della reazione, oggettivamente esagerata, dell’abate di Montecassino e vescovo di Segni, S. Bruno (1045-1123). Uno, perché anche i santi, uomini come noi nella storia, possono capire male e sbagliarsi. Due, perché l’accordo tra Papa ed imperatore era solo questione politica, poiché Enrico V non pretese di consacrare lui i vescovi nel senso sacramentale ed il contenuto della dottrina sul sacerdozio non fu minimamente toccata. All’epoca anello e pastorale erano insegne anche civili, che attestavano non solo la potestà sacra, ma pure il possesso del feudo corrispondente. Si discuteva se un’investitura dovesse precedere l’altra, cioè se la guida suprema della società andasse al sacerdotium o al regnum, ma non sulla dottrina corrispondente a queste definizioni. Il fatto che “nel Medioevo il termine eresia era usato in senso ampio, mentre soprattutto dopo il Concilio di Trento il linguaggio teologico si è affinato” non è una scusa per esercitare una malizia ideologica, né per abusare della parola nel contesto odierno.
Giovanni XXII (1316-34) fu il secondo Papa della cattività avignonese. Egli era un dotto canonista per formazione, mentre, sempre per formazione, era meno ferrato in teologia. Il 1 novembre 1331 predicò sulla visione beatifica, asserendo che i defunti godranno del volto di Dio soltanto dopo il Giudizio universale. L’omelia scandalizzò l’uditorio, poiché da sempre la Chiesa insegna che le anime dei morti godono già da ora della presenza di Dio in Paradiso. Giovanni XXII dovette precisare che si trattava di un’opinione personale ed in punto di morte ritrattò pubblicamente le sue ipotesi davanti ai cardinali che lo assistevano. Neanche questo episodio, però, fa vacillare l’indefettibilità di Pietro. Papa d’Euse non
volle mai vincolare la Cattedra petrina a quelle congetture tramite una solenne definizione, un’enciclica, o altro documento tassativo per il fedele e nessun successore le ha più riesumate.
Come si può vedere, quindi, si trattò di casi veramente particolari, che non corrispondono in nulla alla situazione odierna. Anche quando i Papi caddero in errore, non fu mai con la piena consapevolezza e non trovarono alcun seguito nei loro successori. Di conseguenza, si può affermare tranquillamente, e la storia conferma, che la Cattedra di Pietro è davvero la Cattedra della Verità, sempre sostenuta dallo Spirito Santo, come la dottrina cattolica afferma, e dalla Provvidenza quando occorre. Non tutto quello che afferma il Papa è infallibile, ma chi segue il Papa con fede sincera sicuramente non sbaglia.
Michele Brambilla