Come nel 2006 con Piergiorgio Welby, il Partito radicale, per bocca del milanese Marco Cappato, ha tentato di trasformare la vigilia di Natale in una celebrazione della morte procurata. Tuttavia, stavolta la risposta dell’opinione pubblica ha sostato indecisa tra l’annoiato e lo scandalizzato, poiché l’ennesima provocazione si colloca in una congiuntura già satura di altri argomenti dell’agenda liberal. L’appello all’eutanasia libera è caduto apparentemente (nel processo rivoluzionario, in realtà, tutto ha un senso) nel vuoto.
Colpisce la spregiudicatezza con cui quei medesimi che lottano in tutti i modi per affermare una cultura di morte si travestono da agnelli caritatevoli in occasione delle principali festività cristiane (25 dicembre, 15 agosto…), facendosi immortalare mentre visitano platealmente i carcerati ed ammantandosi di versetti del Vangelo. Quella Parola di Dio che, in realtà, fulmina questo atteggiamento in I Corinzi 13 (“Se anche parlassi le lingue del mondo e degli angeli, ma non avessi la carità, risuonerei come un bronzo e come un cembalo che squilla”), poiché è palese che si sta facendo un uso politico della debolezza altrui, per di più considerandosi superiori agli stessi credenti.
La Chiesa è presente nelle prigioni di tutto il mondo da 2000 anni, talvolta come prigioniera nei martiri. I cappellani ed i vescovi non attendono il Natale o la Pasqua per rendersi presenti. Oltre alle occasioni ufficiali, il ministero nelle carceri è fatto di attenzioni ed ascolto quotidiani, che non saranno mai preceduti dagli striscioni e dalle conferenze stampa, ma costituiscono la sostanza di una vicinanza davvero amorosa, che può persino riconoscersi in debito con il beneficiato, come dichiara il card. Angelo Scola durante la visita prenatalizia ai detenuti di Monza (23 dicembre):
“Con voi carcerati si può dialogare in termini franchi e diretti, parlando dei problemi che contano veramente, tra cui il principale, che è di gran lunga la questione del senso del vivere, del “per Chi” inizio, ogni mattina, con un’energia sempre rinnovata, il cammino nella prospettiva di ristabilire rapporti veri e autentici e recuperando la dignità che è propria di ogni uomo. Per questa ragione provo gratitudine tutte le volte che mi reco in un Istituto di pena”.
L’arcivescovo non lancia proclami contro la giurisprudenza vigente o sulla condizione delle carceri, ma parla all’interiorità di ciascun detenuto.
“Mi ha sempre colpito che tra i detenuti nessuno nega la necessità di espiare la pena. Occorre riconoscere la colpa e imboccare con forza la strada del perdono chiesto, anzitutto, a coloro a cui si è fatto del male. Queste due condizioni permettono di vivere la pena, nel rispetto reciproco che è il cambiare “qui” e “subito”, rendendo costruttivo questo momento di prova nel quale si cresce. (…) Abbiate stima di voi stessi, ricordate che Dio vi vuole bene e non vi lascia mai soli”.
Nell’omelia della Messa della Notte santa, nel Duomo di Milano, il card. Scola prosegue:
“La potenza di questa luce, tuttavia, non si mostra nell’eliminazione del dramma dell’esistenza, ma nella sua capacità di farcelo vivere fino in fondo, senza mai fermarsi, senza mai ritirarsi, senza mai cedere. Non perché la stanchezza, la mancanza di forze, la delusione o addirittura lo scetticismo non possano affacciarsi nel nostro cuore, ma perché è sempre possibile la ripresa in forza di Gesù Bambino, «il volto della misericordia del Padre» (Papa Francesco, Misericordiae vultus 1)”.
Ecco perché le porte delle celle sono diventate una porta santa aggiuntiva nella bolla d’indizione del Giubileo.
Quando parlano di carceri e carcerati, la Chiesa ed i radicali impiegano apparentemente gli stessi vocaboli. In realtà, sono due antropologie diverse. Una è quella del Dio fatto uomo, che muore per riscattare il peccatore e lava i piedi pure a Giuda, avendo un immenso rispetto per la libertà e la vita di ciascuno. In questa prospettiva, la carcerazione può persino essere un momento di grazia, una sosta meditativa che consente l’esperienza interiore del figliol prodigo. L’altra crea un uomo-monade, completamente pervaso dai suoi capricci insindacabili, per il quale il muro del carcere è unicamente un limite ad una libertà irrefrenabile. Una costruisce, l’altra è l’anticamera della jungla.
Michele Brambilla