Era il 14 agosto 1963, vigilia di quella festa dell’Assunta che già allora significava città vuote da almeno un mese e mezzo, esodi in autostrada e gavettoni in spiaggia, quando il rettore maggiore dei seminari milanesi diede ai suoi alunni un annuncio sbalorditivo: “Sono ormai le 12 e posso rompere il segreto. Sono il vostro arcivescovo[1]”. Succedeva così, a pochi mesi di distanza, a quel card. Giovanni Battista Montini (arcivescovo di Milano 1954-1963) che nel frattempo era diventato Paolo VI (1963-78).
L’episcopato del card. Colombo fu segnato dal Concilio Vaticano II (1962-65) non meno di quello del predecessore. I primi anni, infatti, trascorsero per lunghi mesi a Roma, seguendo pazientemente le lunghe e laboriose sessioni conciliari. Già da rettore del Seminario Arcivescovile di Milano aveva partecipato alla Commissione preparatoria del Concilio Vaticano II nella sezione per i seminari e le università degli studi. Nella prima sessione del concilio (ottobre-dicembre 1962) entrò nella commissione che aveva il medesimo scopo. Il recente volume a cura di mons. Inos Biffi (a cura di), Il Concilio Vaticano II. Discorsi e scritti (Yaca Book-Centro Ambrosiano 2013), ripercorre i rari interventi in aula, le lettere scritte al popolo ambrosiano dal concilio e i discorsi negli anni della ricezione dei decreti conciliari nell’arcidiocesi milanese (1965-87). L’antologia comprende quindi anche i testi degli anni più vicini alla morte, avvenuta il 20 maggio 1992, quando ormai era arcivescovo emerito, il primo a Milano ad avere tale appellativo.
Il card. Colombo e la condanna del comunismo.
La seconda sessione del Concilio Vaticano II (1963), la prima vissuta dal card. Colombo come arcivescovo, fu preceduta da una clamorosa iniziativa del bureau dell’associazione Tradizione Famiglia Proprietà, impiantato a Roma dal professore brasiliano Plinio Correa de Oliveira (1908-95) per sostenere il lavoro dei vescovi Antonio de Castro Mayer (1904-91) e Gerardo de Proenca Sigaud (1909-99). “La battaglia principale del Coetus Internationalis Patrum”, di cui i due vescovi furono esponenti di spicco, “è per un paragrafo di condanna esplicita del comunismo nella costituzione Gaudium et spes[2]”. Il primo passo per combatterla fu, proprio nell’agosto 1963, distribuire in conferenza stampa a tutti i padri conciliari il tagliente libello di Correa de Oliveira, La libertà della Chiesa nello Stato comunista[3], in cui il polemista rifiutava qualsiasi possibilità di trattativa tra Cattolicesimo e regimi dell’Est in nome dell’assoluta opposizione tra l’ideologia marxista, comprendente l’ateismo e l’abolizione della proprietà privata, ed il Decalogo biblico.
L’obbiettivo dichiarato era sabotare la “dolosa manovra pacifista di Mosca negli ambienti cattolici[4]”. Una manovra in corso da tempo, da quando Stalin aveva visto fallire il piano di costituire attorno al patriarcato di Mosca, restaurato nel 1943 dopo decenni di persecuzione sanguinaria, una sorta di “Vaticano rosso” con cui influenzare l’intero mondo ortodosso[5]. Il patriarcato di Costantinopoli, più vicino agli Stati Uniti, era infatti inflessibile nel difendere le sue prerogative tradizionali, per cui il clero asservito ai diktat del Cremlino fu costretto ad inaugurare una nuova fase diplomatica, latrice di messaggi irenici. L’URSS permise l’invio di osservatori al Concilio Vaticano II, ma col compito di impedire qualsiasi intervento anticomunista.
Nonostante la petizione firmata da numerosi padri conciliari, non vi fu, in effetti, una condanna palese del marxismo, tuttavia si ricordò in nota l’enciclica Divini Redemptoris (1937) di Pio XI (1922-39) e al punto 20 (“Ateismo sistematico”) della Gaudium et Spes si criticò la visione del mondo che “si aspetta la liberazione dell’uomo soprattutto dalla sua liberazione economica e sociale. Si pretende che la religione sia di ostacolo, per natura sua, a tale liberazione. Perciò i fautori di tale dottrina (…) combattono con violenza la religione e diffondono l’ateismo ricorrendo anche agli strumenti di pressione”[6]. Non vi fu, insomma, il silenzio totale auspicato da Mosca: gli “incompetenti” pope ortodossi furono subito puniti con una nuova campagna antireligiosa[7].
Tra coloro che non dubitarono della necessità di condannare il comunismo ci fu il card. Giovanni Colombo, il quale così descrive il dibattito tra i vescovi in una sua lettera al clero ambrosiano: “Molti padri hanno alzato la voce in concilio esigendo che tra i problemi venisse incluso anche quello costituito dal comunismo. Questa forma organizzata e militante di marxismo ateo, dove è riuscita a prevalere, tiene avvinta tanta parte dell’umanità, violando i diritti imperscrittibili della persona, vincolando l’espressione della libertà civica e religiosa, mettendo la Chiesa in stato di persecuzione più o meno larvata e ricucendola praticamente al silenzio. (…) perciò la Chiesa, dovendo presentarsi al mondo attraverso le parole e le disposizioni del concilio, non deve tralasciare di mettersi a confronto anche con questa forma nuova ed aggressiva, in cui hanno preso corpo tutti gli errori antichi sulla natura e sul fine dell’uomo. Così pensano i padri. E lo Spirito li assista[8]”. Come non leggere l’eco di queste parole nelle espressioni di Gaudium et Spes sopra citate? Il contributo del card. Colombo alla stesura di quel paragrafo è un tema certamente da indagare con adeguata attenzione dagli studiosi. Espressioni come “vincolando l’espressione della libertà civica e religiosa” o “persecuzione più o meno larvata” ricordano vagamente alcuni paragrafi del libro di Plinio Correa de Oliveira, i quali recitano: “Nello Stato comunista, ufficialmente ideologico e settario, questa impregnazione dottrinale della massa è atta con intransigenza, ampiezza e metodo (…). Lungo tutta la storia, non vi è esempio di pressione più completa nel suo contenuto dottrinale[9]”. Mentre c’è una più identificabile concordanza di significati quando si ritiene che la tolleranza accordata dal regime (“persecuzione larvata”) non sia vera libertà religiosa.
Il card. Giovanni Colombo torna sull’argomento nella terza lettera che invia dal concilio nel 1965, il 3 ottobre. In essa affronta specificamente il tema “la Chiesa e l’ateismo[10]” secondo i termini che si ripresenteranno in Gaudium et Spes. Nella lettera, l’arcivescovo di Milano chiama direttamente in causa il comunismo e prevede lo sfacelo morale che esso lascerà alle sue spalle nei Paesi occupati.
“Negatori di Dio non mancarono mai sulla terra: ma non era mai capitato nella storia che una così larga parte dell’umanità pensasse di poter fare a meno di Dio, anzi, che immani forze politiche si organizzassero e programmassero di sradicare dalle coscienze, anche con violenza, l’idea stessa di Dio. (…) Quando un partito politico non solo persegue uno scopo che prescinde da Dio, ma crede di vedere nell’idea di Dio l’ostacolo alla realizzazione del suo ideale, allora è portato naturalmente a combattere la religione. Qualora un siffatto partito giunga al potere, non v’è dubbio che ai mezzi persuasivi della propaganda aggiungerà quelli coercitivi della forza a sua disposizione. Tale è appunto l’ateismo propugnato dal comunismo”. In barba alla cosiddetta “distensione”, il card. Colombo rimane per una condanna senza attenuanti del marxismo: “Per comprendere l’atteggiamento intransigente della Chiesa di fronte al gigantesco fenomeno comunista, bisogna notare tre cose insite nel comunismo: la radice dottrinale atea, la seduzione concreta, la violazione della dignità umana. (…) la posizione della Chiesa di fronte all’ateismo politico non può essere quella di chi lascia i propri figli esposti all’inganno da dialettiche astute, né di chi aspetta passivamente che la bufera passi”. Infine, la frase davvero profetica: “E’ vero, nessuna cosa umana può durare sempre (…). Ma quando la bufera dell’ateismo politico sarà passata o trasformata, i danni della sua devastazione saranno incalcolabili”. Sembra di ascoltare i passi della postilla all’edizione 1977 di Rivoluzione e Controrivoluzione, in cui è chiaramente indicata la possibilità che i regimi ed i partiti comunisti possano cambiare d’aspetto allo scopo di mantenere la loro forza di propagazione[11].
Si è voluto dare molto rilievo a questo particolare perché fino all’antologia edita nel 2013 era pressoché sconosciuta al grande pubblico l’opinione che l’allora arcivescovo di Milano tenne sulla questione della condanna del comunismo. Una posizione certamente autorevole all’interno dell’episcopato italiano, che negli studi viene sempre descritto come vicino alla “fazione conservatrice” del concilio. Parole significative anche se si pensa alla centralità della metropoli ambrosiana nei tragici fatti di sangue dei decenni successivi, i cosiddetti “Anni di Piombo”, segnati dalla violenza politica come esito naturale della contestazione anarchica del Sessantotto[12].
Qui parla il rettore del Seminario.
Un secondo tema che mise in luce la personalità poliedrica e rigorosa del card. Colombo fu l’educazione. Rettore del Seminario Arcivescovile di Milano dal 1953 all’elezione ad arcivescovo, sentiva profondamente quello che sarebbe un giorno stato chiamato il “valore non negoziabile” della libertà d’educazione. Da professore vivace, amante dei Promessi Sposi ed esperto di letteratura italiana contemporanea, trattò la questione con equilibrio, volendo preservare sia la serietà degli studi, sia superare determinati scogli metodologici e pedagogici, che era necessario cambiare per preservare la qualità delle vocazioni.
Alla formazione del clero dedicò uno dei rari interventi in aula. Il 12 novembre 1964 esordì ricordando il concilio di Trento ed il suo imperativo di costituire seminari: “Lo scorso anno, ricorrendo il IV centenario del Decreto del Concilio di Trento sui Seminari, si è detto e scritto molto a lode di questo istituto e certo a buon diritto e meritatamente. E tuttavia quasi dappertutto si sottolinea l’urgente necessità di apportarvi non poche modifiche ed adattamenti per meglio rispondere ai bisogni dell’epoca moderna[13]”. Non si tratta di inviti ad inseguire la modernità a prescindere, ma mettono fortemente in campo il principio di realtà. Nei seminari dell’epoca mancava organicità di pensiero, ogni materia seguiva un proprio binario. Inoltre, l’educazione dei ragazzi era “giudicata da molti troppo passiva, troppo precauzionale, ossia quasi unicamente intenta a premunire contro le seduzioni del mondo, troppo avulsa dalla società. Talora è lecito sospettare che manchi di una piena e profonda libertà nel discernimento della propria vocazione[14]” demonizzando tutto ciò che è estraneo.
Per risolvere la questione, il card. Colombo invita a sottolineare maggiormente come il creato abbia il suo punto di unità in Gesù Cristo. E’ lui che è la chiave di volta degli studi ecclesiastici. “In Lui, Maestro, Sacerdote e Pastore, devono rivolgersi incessantemente gli occhi degli alunni[15]”. Di fronte a Cristo tutti, anche il mondo ecclesiastico nel senso più puramente gerarchico, devono sempre emendare la propria vita, senza istituire facili manicheismi mondo/clero: “L’annuncio programmatico di Cristo Signore, “Convertitevi perché il Regno dei cieli è vicino”, è sempre valido per ogni anima cristiana in qualunque condizione[16]”.
“In conclusione, approvo pienamente lo schema[17]”, ovvero lo schema che il 28 ottobre 1965 ha preso il nome di Optatam totius, il decreto sulla formazione sacerdotale. Gli interventi del dibattito in aula, nel novembre 1964, erano stati 32, tra i quali quello del card. Colombo che abbiamo analizzato. Optatam totius riorganizza la vita dei seminari in modo che vi si colga il mistero stesso della Chiesa. “Gli alunni siano penetrati del mistero della Chiesa, che questo Sacro Concilio ha principalmente illustrato, in maniera che, uniti in umile e filiale amore al Vicario di Cristo, e domani come sacerdoti aderendo al proprio vescovo come fedeli collaboratori (…), sappiano dare testimonianza di questa unità con cui gli uomini vengono attirati a Cristo[18]”. Il principio cardine è quindi quello della comunione sacerdotale, che deve respirarsi nei corridoi dei seminari per poter innervare tutta la vita pastorale successiva all’ordinazione dei candidati.
Il mistero della Chiesa qui evocato è la sua capacità di essere, seppur abitata da peccatori, corpo mistico di Gesù Cristo, secondo quanto dice la costituzione Lumen gentium approvata in quegli stessi giorni (21 novembre 1964). “La Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano[19]”. Col Concilio Vaticano II culmina la riflessione sulla sacramentalità della Chiesa, completando quanto il Vaticano I aveva iniziato parlando di ciò che è specifico del Papa. Il card. Colombo precisa sull’argomento: “I padri di quel concilio, infatti, definendo solennemente il primato del Papa, che ha per vertice l’infallibilità, avevano coscienza di non inventarlo, ma di prendere chiara e riflessa coscienza che esso era in atto da sempre nella Chiesa. Il dogma non è mai la creazione di un fatto nuovo, ma è il riconoscimento di ciò che esisteva fin dall’inizio nella Chiesa, in forma più o meno esplicita, che risale quindi a Gesù Cristo[20]”.
Può essere curioso citare, a questo punto, l’opinione che il card. Colombo aveva dei preti operai francesi. Nella settima lettera dal concilio (1965), l’arcivescovo condivide i motivi nobili che spinsero alcuni sacerdoti d’Oltralpe a prendere la via della fabbrica (“L’idea dei preti operai nacque da un magnanimo impulso di carità apostolica. Quando durante la guerra gli operai venivano deportati in massa a lavorare nelle officine tedesche, alcuni sacerdoti francesi si fecero passare come operai, (…) allo scopo di non lasciar loro mancare l’assistenza religiosa[21]”), tuttavia la considera una misura emergenziale, non praticabile nel contesto italiano, ed ambrosiano nello specifico. “Le nostre popolazioni oggi non vedrebbero con simpatia il prete in tuta nelle officine, e per due motivi: perché non lo sentono estraneo alla propria vita, (…) e poi perché i nostri operai, per quanto abbiano risentito della propaganda marxista, non sono insensibili alla voce della Chiesa, specialmente se presi singolarmente[22]”.
Il sacerdote ambrosiano, specialmente dopo la grande lezione di S. Carlo Borromeo (arcivescovo dal 1565 al 1584), è sempre vissuto “in mezzo alla gente”, senza però mai rinunciare alla dimensione sacrale del proprio ruolo e a tutto ciò che la rendeva evidente. La storia della “santità ordinaria” dei parroci milanesi è piena di esempi di sacerdoti così intimamente uniti al proprio gregge da percorrere km in aperta campagna per visitare i fedeli di una sperduta cascina, da ideare casse rurali ed aprire asili per l’infanzia, da perdere il sonno pensando alle preoccupazioni di un nuovo cantiere e da passare ore ed ore sotto il sole cocente dell’oratorio feriale. Nei richiami al suo clero, il card. Colombo insiste su questa tradizione di vicinanza senza confusione: “su questo presupposto è facile comprendere che l’esercizio del comando nella Chiesa, se, da un lato, rifiuta naturalmente ogni forma dispotica, dall’altro non potrebbe neppure accontentarsi di forme variamente “democratiche”, ma deve perseguire uno stile suo, conveniente al popolo di Dio[23]”. Preserva e difende, sia in aula conciliare che dopo, la prassi del celibato sacerdotale (“Il sacerdote, erede del carisma dell’apostolo, è chiamato a rappresentare e rinnovare l’amore sponsale di Cristo per le anime: non per una soltanto, ma per tutte e singole che il disegno salvifico di Dio pone sulla sua via[24]”) e la necessità dell’abito religioso (“(…) fonda con noi l’esigenza a comportarsi secondo uno stile di vita che nel vestire, nella limpidezza del linguaggio, nella dignitosità del tratto, senza renderci artificiosi ed inautentici, ci distingua dalla profanità[25]”).
Libertà di educazione, vita e famiglia: nulla che non venga dalla tradizione della Chiesa.
Al card. Colombo stava a cuore l’educazione non soltanto quando si trattava della formazione del clero ordinato, ma anche della società civile. Avvertiva sempre più come la libertà religiosa stesse scemando anche in Occidente. Come si nota in questa meditazione del 1975: “Si va restringendo l’ambito di libertà del cristiano. Egli è vittima di una continua distorsione della verità, in particolare quando si tratta delle informazioni della vita ecclesiale[26]”. L’arcivescovo di Milano, ed è l’altro punto sommamente interessante, non demonizza la cosiddetta “era costantiniana”, ma la chiama col suo nome, “Cristianità”. “Ma da molti se ne è dedotto che ogni forma di cristianità è illegittima o almeno superflua. (…) Questa deduzione non è molto convincente, né sul piano dei principi, né su quello della prudenza pastorale. (…) è innegabile che la fede (…) esige di incarnarsi e di sbocciare in qualche organizzazione comunitaria nuova e diversa[27]”.
Incarnare il Vangelo nel mundum spetta specialmente ai laici. Il card. Colombo stimava profondamente il laicato ambrosiano, che riteneva già perfettamente consono al ruolo di diffusore della dottrina sociale della Chiesa negli ambienti quotidiani. “Il nostro laicato cattolico, reclutato in larga parte tra gli operai, ha saputo fare e sempre meglio sa fare da tramite tra il Vangelo e l’officina[28]”.
Pertanto l’arcivescovo di Milano fu in aula uno dei più grandi sostenitori dell’Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici ed il 29 settembre 1965 propose degli emendamenti ai testi che si stavano preparando sulla morale familiare. Capitanando un fronte di 32 vescovi italiani, spinse affinché esaltasse il significato profondo dell’atto procreativo. “L’amore coniugale sia dichiarato fine intrinseco del matrimonio, coessenziale alla finalità procreatrice[29]”. Le pressioni degli intellettuali laicisti affinché la Chiesa “moderasse” punti salienti della sua morale pervadevano i media. Conscio che alcune rigidità fossero da modificare, ma che non bisognasse abbandonarsi al lassismo, il card. Colombo si batté perché lo schema conciliare non apparisse condiscendente alle debolezze dell’uomo contemporaneo. “Al contrario, lo schema, mentre esclude in termini espliciti l’infanticidio e l’aborto, condanna con termini troppo generici coloro che cercano sconsideratamente una soluzione più facile[30]” alla questione della contraccezione. “Evitiamo, pertanto, ogni ambiguità[31]”. Gaudium et Spes pronuncerà una dura condanna degli “usi illeciti contro la generazione” ed accoglierà l’assunto che il matrimonio e la procreazione sono intrinsecamente inscindibili. Il gesto unitivo tra uomo e donna deve essere “libero e mutuo dono di se stessi”[32], una libertà che non diventa però arbitrio capriccioso ed infecondo.
Quando nel 1976 una grave fuoriuscita di gas irritante dai camini dell’ICMESA di Seveso gettò l’arcidiocesi di Milano nell’occhio del ciclone della battaglia abortista (i Radicali terrorizzarono le donne brianzole con slogan del tipo “o aborto, o mostro” e pretesero l’impunità penale), il card. Giovanni Colombo dimostrò un’eroica fermezza nel difendere i principi della morale cattolica e, soprattutto, la vita nascente. Egli, aiutato dalla testimonianza della beata Teresa di Calcutta (1910-97), che visitò più volte Milano in quei frangenti, mise in moto la solidarietà di tante mamme cattoliche, che si proposero di adottare i bambini handicappati senza nessun contraccambio. Il 22 maggio 1998, quando l’arcivescovo aveva ormai lasciato questo mondo da circa sei anni, il b. Giovanni Paolo II accolse in Aula Nervi i giovani di Seveso, nati perfettamente sani dopo il disastro dell’ICMESA, che inalberavano un grande, significativo striscione: “Grazie card. Colombo”.
“Un profeta vero”.
Non si può quindi che concordare con mons. Inos Biffi, quando definisce il card. Colombo “Un profeta vero. Attesa e pertinente, la parola del cardinale Colombo venne negli anni in cui a contestare alcune verità fondamentali di etica cristiana non erano solo, come si dice, i laici; erano anche i cristiani che avevano scelto il mestiere della “profezia” e si erano specializzati nella professione di lettori dei segni dei tempi; a contraddirlo sui giornali laici erano anche alcuni che vestivano l’abito religioso, tutti impegnati a distorcere la lettera e lo spirito del Concilio, con retorica sonora ma poveri di vero senso della Chiesa[33]”. Riprendendo proprio le parole di mons. Inos Biffi durante la Festa dei Fiori nel seminario di Venegono Inferiore (8 maggio 2013), si potrebbe dire: “Credo che mano a mano che si studieranno i documenti di Colombo e le sue vicissitudini, si comprenderà come sia stato uno dei più grandi arcivescovi di Milano. Non mirava all’applauso, non mirava a fare il profeta, mirava solo a spiegare i contenuti del mistero cristiano così come sono stati tradotti dal Concilio ecumenico Vaticano II[34]”. Un’importanza che travalica il Novecento stesso e che fa impallidire tante patenti di “profezia”, così facilmente affibbiate in questi decenni.
[1] INOS BIFFI, Il cardinale Giovanni Colombo, NED, Milano 2002, p. 125.
[2] MASSIMO INTROVIGNE, Una battaglia nella notte, Sugarco, Milano 2008, p. 106.
[3] Cristianità, Piacenza 1978.
[4] Idem, p. 7.
[5] MICHAIL SKAROWSKIJ, La Croce ed il potere. La Chiesa russa da Stalin a Chruscev, La Casa di Matriona, Seriate (BG) 2003, pp. 151-76.
[6] Gaudium et Spes, cap. 1 par. 20. Opp. Cit. in CONCILIO VATICANO II, Tutti i documenti del Concilio, Massimo, Milano 2006, p. 157.
[7] MICHAIL SKAROWSKIJ…, p. 195.
[8] Sesta lettera dal concilio, 24 ottobre 1964, in GIOVANNI COLOMBO, Il Concilio Vaticano II. Discorsi e scritti, Jaca Book-Centro Ambrosiano, Milano 2013, p. 48.
[9] PLINIO CORREA DE OLIVEIRA, La libertà della Chiesa nello Stato comunista, p. 37.
[10] GIOVANNI COLOMBO, Il Concilio Vaticano II…, pp. 72-75.
[11] “Apogeo e crisi della III Rivoluzione”. PLINIO CORREA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Controrivoluzione, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 173-77.
[12] ENZO PESERICO, Gli anni del desiderio e del piombo, Sugarco, Milano 2008.
[13] GIOVANNI COLOMBO, p. 51.
[14] Idem, p. 52.
[15] Idem.
[16] GIOVANNI COLOMBO, p. 81.
[17] GIOVANNI COLOMBO, p. 53.
[18] Optatam totius, sez. IV, par. 9.
[19] Lumen gentium, cap. 1, par 1.
[20] Il primato di Pietro dopo il concilio, opp. cit. in GIOVANNI COLOMBO, p. 245.
[21] GIOVANNI COLOMBO, p. 91.
[22] Idem, p. 93.
[23]L’unità dei presbiteri con il vescovo fa il presbiterio (1968), opp. cit. in GIOVANNI COLOMBO, Ai miei diletti sacerdoti. Omelie della Messa crismale, Centro Ambrosiano, Milano 1997, p. 51.
[24] Per la rinnovazione degli impegni sacerdotali nella Messa crismale (1970), opp. cit. in GIOVANNI COLOMBO, Ai miei diletti sacerdoti.., p. 82
[25] Il sacro ed il santo (1976), opp. cit in GIOVANNI COLOMBO, Ai miei diletti sacerdoti…, p. 145.
[26] Sguardo sul primo decennio dopo-concilio, opp.cit. in GIOVANNI COLOMBO, Il Concilio Vaticano II…, p 258.
[27] Idem, p. 261.
[28] Settima lettera dal concilio (1965), opp. cit. in GIOVANNI COLOMBO, p. 93.
[29] Intervento su matrimonio e famiglia (29 settembre 1965), opp. cit. in GIOVANNI COLOMBO, p. 69.
[30] Idem, p. 71.
[31] Idem.
[32] Gaudium et Spes, parte II, cap. I, par. 47-48.
[33] INOS BIFFI, Il card. Giovanni Colombo…, p. 296.
[34] Intervista televisiva, rilasciata alla trasmissione diocesana “La Chiesa nella città”, puntata del 9 maggio 2013.