“In memoria di Eugenio Corti, fedele cantore di verità e bellezza”. Così s’intitola il necrologio che l’arcidiocesi di Milano dedica sul suo sito ufficiale al grande scrittore di Besana Brianza, scomparso a 93 anni il 5 febbraio. Un cordoglio spontaneo, corale, che vale di più di qualsiasi Nobel per la letteratura, e che si china su una figura talvolta scomoda anche nella sua terra, specialmente nei decenni post-1968, ma che ha saputo incarnare come pochi altri l’esperienza vissuta del popolo cattolico ambrosiano nel terribile XX secolo.
Eugenio Corti nacque infatti il 21 gennaio 1921, sempre a Besana Brianza, pochi giorni prima che Milano piangesse la dipartita del beato card. Andrea Carlo Ferrari (2 febbraio). Fu proprio l’arcidiocesi di Milano a garantire a lui un’istruzione di alto livello nel Collegio arcivescovile S. Carlo di Milano, in cui “scoprì la sua vocazione di scrittore”.
“Nel giugno del ’42 Corti fu destinato al fronte russo. La successiva ritirata diede origine al diario de I più non ritornano (1947): fu il primo scrittore italiano a dare voce a quella tragedia bianca”, doppiamente bianca, perché fu avvolta dal gelido inverno russo e coinvolse giovani in gran parte cresciuti all’ombra del Cattolicesimo, mandati dai totalitarismi a morire per gli interessi di ideologie anticristiane. La campagna di Russia fu il momento in cui Corti toccò con mano gli orrori del comunismo, alla confutazione del quale avrebbe dedicato il resto dell’esistenza, ma soprattutto il suo capolavoro, Il Cavallo Rosso, che narra proprio le vicende di un borgo della Brianza tra il 1940 e il 1974. Benoit Maubrun (L’Homme nouveau) ha affermato: «I libri veramente grandi sono rari. Manifestamente, con Il Cavallo rosso dell’italiano Eugenio Corti, ci troviamo di fronte a uno di questi monumenti che segnano un’epoca… Ci si può chiedere: in che consiste il punto di forza e il successo di quest’opera immensa? Troppi sono i suoi pregi perché se ne possa fare un semplice conteggio. Ma uno li riassume tutti: la fedeltà alla verità»”. Non teme, infatti, di chiamare il male con il suo nome, benché sia politicamente scorretto.
La menzione da parte del sito diocesano anche della raccolta Il fumo nel tempio (Ares 1996), che possiede racconti molto critici nei confronti della pastorale post-conciliare degli anni ’60-’70, appare assolutamente coraggiosa e suona come un invito ad applicare l’ermeneutica della riforma nella continuità ratzingeriana anche dal punto di vista storiografico. Ancora una volta Corti si dimostra un acuto osservatore del Cattolicesimo ambrosiano, specialmente laddove ricorda l’incidente dell’ICMESA (Seveso 1976), in seguito al quale si crearono i presupposti per l’introduzione dell’aborto nella legge italiana. L’arcivescovo di Milano Giovanni Colombo difese strenuamente la vita dei bambini di cui le donne brianzole, oggetto di una furiosa propaganda radicale, erano incinte. Lo scrittore rappresenta i fatti così come furono vissuti da quella larga componente del popolo ambrosiano che anche negli anni successivi faticava a seguire i teologi di moda, le canzonette e un biblicismo esasperato, ma perseverava nelle pratiche tradizionali, nell’impegnarsi in oratorio e ad ascoltare con amore filiale il Papa e l’arcivescovo. Un popolo che lesse le opere di Corti e i suoi interventi, pubblicati fra l’altro sulla rivista di apologetica il Timone, dove scrisse regolarmente per molti anni.
Ora che riposa accanto ai padri suoi, Eugenio Corti rimane come simbolo di impegno cattolico “fedele”, appunto, “alla verità”. Le sue opere testimoniano le radici autentiche dei nostri paesi, un Cattolicesimo fiero della sua storia e certo dei suoi giudizi sul mondo.
Michele Brambilla